venerdì 28 novembre 2008

ITALIA VS PACIFIC ISLANDERS, STADIO DEL GIGLIO, REGGIO EMILIA 22 NOVEMBRE 2008 CARIPARMA TEST MATCH

Sono finiti questi test match di novembre. E con i nostri ragazzi della nazionale è andato via anche il sole, infatti qui a Milano nevica a cielo chiuso…è come se il tempo si fosse rattristato anche lui! Sì perché, abbiamo subito un’altra sconfitta sabato scorso, contro i Pacific Islanders (17 a 25) e, ammettiamolo, non abbiamo fatto una gran bella partita. La meta di Mauro al 25’ del secondo tempo su assist di capitan Parisse non è servita a risollevare gli animi e una partita ormai persa. Insomma, il bilancio di questi test match si chiude in negativo, con tre sconfitte.
Cosa succede alla nostra nazionale? Non abbiamo perso neanche in modo onorevole. La delusione, i musi lunghi degli azzurri erano lampanti a fine partita. Guardando alcune interviste on–line si legge a chiare lettere la tristezza sui loro volti e oserei dire anche una certa espressione da cani bastonati (chissà che lavata di capo gli ha fatto Mallet negli spogliatoi…). Parisse sostiene che la squadra ha fatto un bel gioco a tratti (ma non basta) e che per vincere devono tenere di più il possesso della palla, perché se dobbiamo perdere, almeno perdiamo giocando (mi sembra giusto). Bortolami ci riporta a quello che più conta nel rugby: devono ritrovare l’umiltà e lavorare duro, devono ricostruirsi come squadra che ha alcune luci (per il momento troppo poche) e ombre dove bisogna lavorare (molto). Infine Mauro Bergamasco, che non perde occasione per ribadire che bisogna rimettere i piedi per terra e che, comunque, i risultati sono stati beffardi nel raccontare il loro punto di arrivo.
Ma qual è questo punto di arrivo? Io mi chiedo. E forse non sono la sola. Ho sempre difeso la nostra nazionale di rugby, ma forse i ragazzi si stanno perdendo o la pressione psicologica è tale da non riuscire poi a concretizzare il loro impegno nella preparazione e la loro voglia di vincere? Su vari siti di rugby ho letto molte polemiche e parole di amarezza circa il comportamento degli azzurri nei confronti dei tifosi: non hanno fatto il giro di campo per applaudire chi, nonostante il freddo, era venuto a sostenerli; infastiditi dalle troppe attenzioni, sono stati sgarbati con alcuni tifosi; non si fermano più al terzo tempo.
Ma che sta succedendo? Perché il rugby (italiano) sta prendendo questa piega? Perché i nostri ragazzi si comportano da divi? L’opinione diffusa è che si stanno montando la testa. Ma è possibile che per qualche calendario e qualche ospitata in televisione scivolino così in basso?Io mi sono avvicinata al rugby perché in questo sport ho ritrovato valori che si stanno via via perdendo, perché questo è lo sport di condivisione e uguaglianza per eccellenza, dove c’è posto per tutti. E di questi valori sono portatori in primis i giocatori, che ci mettono la faccia. I valori in cui credono dovrebbero essere ben saldi nelle loro teste e nel loro comportamento. Che fanno, sennò, parlano a vanvera?
Purtroppo i rugbisti stanno diventando dei fenomeni, chiamati alle luci della ribalta più per la loro bellezza che per le virtù e le doti che mostrano in campo. Un giorno saranno ricordati come dei bellocci, con dei fisici pazzeschi che posavano nudi, che facevano le pubblicità, che facevano impazzire donne e uomini e…che…ah, sì, una volta erano anche giocatori di rugby.
Dovrebbero ricominciare sì ad avere umiltà, a scendere dal piedistallo, a lavorare duro, ma dovrebbero, soprattutto, ritornare a divertirsi giocando. Una volta ho letto da qualche parte queste parole di un giocatore: Il rugby è uno stile di vita. Se la pensi in questo modo, lo puoi vivere come un divertimento. Non è vero che si deve soffrire per giocarlo.
Speriamo di vedere tutto questo al 6 nazioni.

mercoledì 19 novembre 2008

ITALIA VS ARGENTINA, STADIO OLIMPICO, TORINO 15 NOVEMBRE 2008 CARIPARMA TEST MATCH

Abbiamo perso, 14 a 22 e, purtroppo, non ci siamo fatti molto onore in campo. E, purtroppo, questa volta non ero presente allo stadio, ma è stata comunque un' esperienza interessante, perché, a causa dello sciopero dei giornalisti sportivi di la7, non c’era la cronaca. All’inizio sono rimasta spiazzata, ma quando ho capito che la voce di sottofondo (e che si sentiva perfettamente) era quella dell’arbitro, mi sono resa conto che potevo seguire la partita da un punto di vista insolito. Sì, perché l’arbitro orchestra proprio la partita, dando le direttive ai giocatori e intervenendo continuamente. Finalmente ho capito cosa diavolo dice in alcuni passaggi fondamentali del gioco (e cosa dice ai giocatori che fanno un gioco non proprio corretto) e mi si sono chiarite alcune regole. Diciamo che ho fatto un bel ripassone generale, sul campo, è proprio il caso di dirlo!
Il gioco mi è sembrato statico, non facevano girare molto la palla, insomma mancavano di aggressività.
Ho letto diverse interviste dove gli azzurri e Mallet esprimevano tutta la loro delusione per una partita giocata male. Mi ha colpito la loro voglia di riscatto, ma con umiltà, consapevoli di avere sbagliato e che li aspetta un duro lavoro per la squadra. Soprattutto non vogliono deludere i tifosi, sempre numerosi e affettuosi e giustamente vogliono regalarci una vittoria.
Non mi sento delusa dalla nostra nazionale. E’ facile sostenere chi vince sempre. Adesso, in questo momento delicato, noi tifosi dobbiamo continuare a sostenerli con tutto il nostro affetto e a crederci. Come l’albatros di Baudelaire, sono in attesa di volare. Prima o poi succederà…






mercoledì 12 novembre 2008

ITALIA VS AUSTRALIA, STADIO EUGANEO, PADOVA 08 NOVEMBRE 2008 CARIPARMA TEST MATCH

E’ finita 30 a 20, per l’Australia, ma la nostra “piccola navicella azzurra” si è difesa con onore e ha giocato una partita splendida. Io c’ero e vi racconto come è andata.
Arriviamo allo stadio Euganeo intorno alle 13.00, a bordo di una navetta (gratuita!) da Padova e ci troviamo di fronte a questo scenario: stand con birra e hot dog, il profumo della carne alla griglia, la musica nell’aria, il clima di festa…
Aprono i cancelli e prendiamo posto nella tribuna est, centrale: ma siamo vicinissime al campo! Che emozione! Ci intrattengono i piccoli rugbisti delle squadre locali che giocano mini-partite in campo, chissà, forse stiamo guardando i futuri fratelli Berga o un futuro capitano della nazionale italiana.
Chiacchieriamo amabilmente, ma quando annunciano al microfono l’entrata della nazionale italiana per il riscaldamento, cala improvvisamente un silenzio di tomba!
Devo dirlo (sì, sono di parte), quando entra Mauro in campo, anche solo per gli allenamenti, tutti gli altri scompaiono e si ferma il tempo: c’è solo lui, il gladiatore azzurro…
La mia capacità di raziocinio si è completamente e irrimediabilmente persa, come il senno di Orlando..sarà finito sulla luna? Temo si sia perso negli spazi intergalattici più profondi…e non credo che il prode Astolfo possa aiutarmi, credo piuttosto che solo il capitano Kirk e l’Enterprise possano salvarmi!!
Mi riprendo velocemente e mi godo comodamente seduta gli allenamenti degli azzurri, buttando un occhio anche agli australiani, che si passano la palla, la lanciano, la calciano come se fosse la cosa più naturale e facile di questo mondo, sembrano di gomma e sono degli omoni!
Una breve sosta negli spogliatoi e i nostri si accingono a tornare di nuovo in campo, questa volta per la battaglia. All’annuncio dell’entrata della nazionale, capitanata da Sergio Parisse, lo stadio esplode in un boato di gioia: tutti in piedi ad applaudire e ad urlare!
Il momento dell’inno arriva immancabile e commovente. Cantiamo a squarciagola (pure io!e con tutti i sacri crismi: mano sul cuore e sguardo commosso) e lo stadio si fonde in una sola voce. Il clima di festa e di gioia continua, grazie alle tifoserie mescolate, gli spalti sono colorati di azzurro, giallo e verde. Applaudiamo e cantiamo, tutti insieme, italiani e australiani.
Ore 15.00: calcio d’inizio! Che emozione, la mia prima partita di rugby dal vivo!!!! All’inizio è stata un po’ dura, non avendo la cronaca a portata di orecchio, ma il gioco era talmente affascinante che mi sono fatta coinvolgere subito dalle azioni e chissenefrega se ho capito la metà di quello che stava succedendo, l’importante era tifare e divertirsi.
Le azioni di gioco scorrono veloci, gli australiani giocano per lo più nella nostra metà campo, ma noi ci difendiamo con grinta e combattività. Al trentunesimo del primo tempo Mirco Bergamasco vola in meta e ci regala 7 punti. Lo stadio esulta e si commuove, soprattutto perché Mauro va a complimentarsi con il fratello, lo abbraccia sorridente, anche da lontano cogliamo sul suo viso la contentezza e la fierezza del fratello maggiore.
Il primo tempo finisce alla pari, 14 a 14. Siamo soddisfatti, ci crediamo. Continuiamo a testa alta, passando in vantaggio. Teniamo inchiodati i Wallabies (la terza miglior nazionale del mondo ovale, sottolineo) sui 20 pari fino al 70’ quando l’Australia passa in vantaggio e vince.
E’ stato uno spettacolo unico, il rugby visto dal vivo è un’esperienza sportiva che tutti dovrebbero fare almeno una volta nella vita. E una meta, un drop, una touche dal vivo sono un’emozione impagabile.
Bravi tutti gli azzurri, in particolare (si, sono di parte, lo ripeto e sono consapevole che il rugby è lo sport di squadra per eccellenza) Mauro Bergamasco, che ha continuato a combattere nonostante i crampi. E' stato in campo fino all'ultimo, a dare tutto il suo cuore e la sua voglia di vincere.
Un arrivederci ai ragazzi che salgono sul pullman, scortatissimi; i bambini urlano i loro nomi, alla caccia di una foto e di un autografo. Che bello, vedere famiglie intere assiepate dietro ai cancelli dello stadio aspettando di congratularsi con i giocatori.
E’ stata una giornata bellissima.










martedì 4 novembre 2008

CARIPARMA TEST MATCH 2008

Ecco i 22 giocatori convocati dal CT Mallet per l’incontro Italia-Australia sabato 8 novembre a Padova, Stadio Euganeo.

Matias AGUERO (Saracens, 8 caps)Mauro BERGAMASCO (Stade Francais, 65 caps)Mirco BERGAMASCO (Stade Francais, 53 caps)Marco BORTOLAMI (Gloucester RFC, 67 caps)Gonzalo CANALE (Clermont Auvergne, 41 caps)Pablo CANAVOSIO (Montepaschi Viadana, 20 caps)Carlo Antonio DEL FAVA (Ulster Branch, 30 caps)Santiago DELLAPE' (RC Toulon, 52 caps)Gonzalo GARCIA (Cammi Calvisano, 2 caps)Leonardo GHIRALDINI (Cammi Calvisano, 13 caps)Andrea LO CICERO (Racing Metro Paris, 76 caps)Andrea MARCATO (Benetton Treviso, 9 caps)Andrea MASI (Biarritz Olympique, 41 caps)Luke MCLEAN (Cammi Calvisano, 2 caps)Carlos NIETO (Gloucester RFC, 28 caps)Fabio ONGARO (Saraceno, 56 caps)Luciano ORQUERA (Brive, 10 caps)Sergio PARISSE (Stade Francais, 54 caps) - capitanoRiccardo PAVAN (Overmach Cariparma, 1 cap)Salvatore PERUGINI (Stade Toulousain, 52 caps)Matteo PRATICHETTI (Cammi Calvisano, 10 caps)Tommaso REATO (Femi CZ Rovigo, 3 caps)Kaine ROBERTSON (Montepaschi Viadana, 32 caps)Josh SOLE (Montepaschi Viadana, 30 caps)Giulio TONIOLATTI (AlmavivA UR Capitolina, esordiente)Alessandro ZANNI (Cammi Calvisano, 24 caps)

FINALMENTE CI SIAMO! Eh sì, siamo agli sgoccioli: tra meno di quattro giorni andrò a vedere la Nazionale di rugby giocare dal vivo! Devo confessarlo, sono molto emozionata..FORZA RAGAZZI!! E anche se non vinceremo (pare sia una partita abbastanza difficile), sono sicura che daranno un bello spettacolo e il meglio di sé, con aggressività e combattività. Non perdetevi questo incontro: appuntamento sabato 8 novembre ore 15.00 su la7!!!

giovedì 2 ottobre 2008

Il senso della vita di Woody Allen

Potrebbe essere la soluzione...
La vita dovrebbe essere vissuta al contrario.
Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo, e così tricchetetracchete il trauma è bello che superato.
Quindi ti svegli in un letto di ospedale e apprezzi il fatto che vai migliorando giorno dopo giorno.
Poi ti dimettono perché stai bene e la prima cosa che fai è andare in posta a ritirare la tua pensione e te la godi al meglio. Col passare del tempo le tue forze aumentano, il tuo fisico migliora, le rughe scompaiono.
Poi inizi a lavorare e il primo giorno ti regalano un orologio d’oro.
Lavori quarant’anni finchè non sei così giovane da sfruttare adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa.
Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari per iniziare a studiare. Poi inizi la scuola, giochi con gli amici, senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finchè non sei bebè. Quando sei sufficientemente piccolo, ti infili in un posto che ormai dovresti conoscere molto bene. Gli ultimi nove mesi te li passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con room service e tanto affetto, senza che nessuno ti rompa i coglioni.
E alla fine abbandoni questo mondo in un orgasmo.
Woody Allen

lunedì 29 settembre 2008

Quelli del rugby di M. e M. Bergamasco e L. Capizzi

“Quelli del rugby. Fango, mete e fairplay: i segreti dello sport da bestie giocato da gentiluomini”, di Mauro e Mirco Bergamasco e Lia Capizzi, Edizioni Rizzoli.
I fratelli Mauro e Mirco Bergamasco, rispettivamente flanker e tre quarti centro della nazionale azzurra, e Lia Capizzi, giornalista sportiva, ci prendono per mano e ci accompagnano nel mondo del rugby, passando attraverso le regole, la storia, le curiosità, gli aneddoti, le esperienze e le emozioni vissute dentro e fuori dal campo di gioco e narrate direttamente dalla voce dei due fratelli. Al centro del libro, un mazzetto di fotografie, che Mauro e Mirco direbbero tratte dall’album di famiglia, completamento iconografico del viaggio.
Definirei questo libro un piccolo vademecum per chi si voglia accostare a questo meraviglioso e nobile sport.
Per me è stata la prima volta: ci voleva il rugby (qualcuno malignerà che è solo responsabilità dei due aitanti “autori”) per accostarmi ad un libro interamente dedicato ad uno sport. Leggendo questo libro ho imparato che il rugby è uno sport nobile, che ha una lunga tradizione; ho imparato che il rugby è un po' una metafora della vita: tutti noi abbiamo una meta alla quale tendere. Raggiungerla non è sempre facile, ci sono diversi ostacoli da superare, bisogna contare sull'aiuto di chi ci è vicino, a volte bisogna tornare sui propri passi per potere riprendere ad andare avanti e, come nella vita, nessuno ti regala niente per niente. Ma soprattutto ho imparato che il rugby e i suoi giocatori sono portatori di valori importanti, spendibili nella vita di tutti i giorni, come il rispetto per l'avversario, il sacrificio, il coraggio, la passione e un grande cuore.
Il libro si presenta come un'operazione simpatica e, giustamente, senza troppe pretese di insegnare qualcosa a qualcuno, c'è solo la voglia di raccontare per incuriosire il lettore. E, devo dire, che hanno centrato l'obiettivo. Forse perché io non ne sapevo nulla di questo sport, mi sono interessata alle loro parole, soprattutto perché il racconto in prima persona dei giocatori serve anche a sfatare alcuni miti e luoghi comuni. Si scopre, allora, che i rugbisti non sono dei “mangioni”, ma seguono una dieta molto equilibrata; che il terzo tempo è sì il momento di svago, ma mai sopra le righe; che l'immersione in una vasca ghiacciata dopo una partita non è masochismo; che è vero che il rugby è uno sport giocato da gentiluomini, perché è uno sport duro, ma mai violento, perché dopo ottanta minuti di botte, gli avversari si stringono la mano con rispetto.
Mi è piaciuto perché Mauro e Mirco sono ragazzi semplici, che sembrano avere ancora uno sguardo puro ma allo stesso tempo disincantato nei confronti del mondo e della vita, si aprono senza problemi a raccontare anche qualcosa di sé e delle loro emozioni. Ci confessano che il pensiero, dopo ogni partita, va alla mamma, preoccupata che i due figli escano dal campo con le proprie gambe; si confidano nel raccontare la difficoltà di conciliare uno sport professionistico, che non ti assicura un futuro, con lo studio; non ci nascondono che i primi tempi nella loro squadra, lo Stade Français, sono stati difficili, perché li chiama(va)no “les ritals” (termine dispregiativo per indicare gli italiani) perché non parlavano bene la lingua e, diciamolo, spezziamo una lancia in favore dei ragazzi, perché i francesi, anzi i parigini, sono geneticamente antipatici!
Uno sguardo ancora puro, sì... anche se mi sembra che ogni tanto faccia capolino tra le righe il loro compiacimento (in senso buono, si intenda) per essere stati paparazzati o per essere stati ospiti a questa o quella trasmissione televisiva. Dicono che tutto questo è frutto dei loro sforzi per far conoscere il rugby, ma siamo davvero sicuri che tutto questo faccia bene al rugby? Secondo me uno sport del genere non ha bisogno di tutto il contorno mediatico e frivolo per essere apprezzato e amato. E' proprio perché fino ad oggi è stato lontano da tutti questi meccanismi che è uno sport nobile. E che ha molto da insegnare, non solo sul campo da gioco. Non vogliamo che diventi una brutta copia del calcio. Non vogliamo che questo o quel rugbista sia riconoscibile perché sta con una velina o perché è bello. In soldoni: non vogliamo che diventino dei divi. Adesso i giocatori sono riconosciuti per il loro valore in campo, perché eccellono nel loro sport e secondo me è questa la strada da percorrere. Il calcio e i calciatori hanno solo da imparare. E al momento i due sport non c'entrano nulla l'uno con l'altro, sono due mondi diversi, che spero rimangano separati. L'accostamento non può che essere una contaminazione negativa.

venerdì 26 settembre 2008

La Galleria Borghese

Questa estate, durante la mia trasferta romana, ho visitato la magnifica Galleria Borghese, che mi ha lasciato senza fiato sia per la bellezza del posto (il museo si erge al centro di uno splendido parco, di proprietà dei Borghese già dalla fine del ‘500, sito nel quale è stata identificata anche la posizione dei giardini di Lucullo - o horti luculliani ), che delle opere.
Però....c'è un però...
Una fanciulla con l'ormoncino che già balla la rumba per via del fatto di essere a Roma, la capitale italiana del 6 Nazioni, fa la brava, cercando di mettere a tacere i bollenti spiriti e dedicandosi alla cultura....e dove ti va a sbattere?? in opere che definirei pornografiche! Eh, sì, io mi aspettavo di vedere quadri di Santi, Cristi morti e Madonne e sono incappata in ninfe adoranti sulla soglia dell'orgasmo, puttini ammiccanti e corpi marmorei di begli dei (ogni riferimento è puramente casuale...)
Cominciamo con la Danae del Correggio, che fa parte del ciclo (e sottolineo che c'erano tutti i quadri, dico tutti...) degli amori di Giove (allego in calce le foto delle opere incriminate). Guardate bene questa adorabile fanciulla, sul letto, in estasi con il puttino che le scosta il lenzuolo e Giove che si insinua in forma di pioggia. Ma insomma, una a cosa deve pensare? Ma al proprio rugbista preferito, naturalmente! Lascio a voi e alla vostra capacità immaginativa fantasticare su cosa succederebbe in quel lettuccio ricoperto di morbide lenzuola...
E Leda che guarda sardonica il cigno? No comment! E l'orgasmo di Io dove lo mettiamo?????
Vabbè, mi sono detta, è la prima sala, adesso passeremo a opere più innocue....e invece no! Che cosa mi si para davanti? Il gruppo marmoreo del Ratto di Proserpina del Bernini! Eh, no, eh, no, eh nooooo! Concentratevi, per favore, sulla foto: avete notato con che forza erotica lui la avvinghia e la porta via? Le mani possenti (e scommetto morbide..) di lui che la afferrano con vigore, affondando nella carne...badate bene, sottolineo carne e non marmo, data la perizia del sommo artista. Ma secondo voi Proserpina sarebbe fuggita se avesse osservato bene il nostro possente Plutone? Mi sa di no.
Ecco, io già mi vedevo avvinghiata al corpo del rugbista di cui sopra, che, tra le sue maschie braccia, mi porta via e all’ombra di un pino marittimo si concede un po’ di svago…
Il paragone è d’obbligo: sembra proprio che Bernini abbia avuto come modello uno dei Dieux du Stade, uno a caso… Mauro! con le spalle muscolose, la schiena tesa, gli addominali scolpiti, i glutei sodi...e non aggiungo altro!Passando nella stanza di fianco, mi si para davanti, sempre di Bernini, il David. Aridaje....Mirco! agile ed atletico, con pure i ricciolini (...).
Ma quando finisce 'sta tortura, penso tra me e me...ancora Bernini: Apollo e Dafne, due figure di infinita bellezza e leggiadria. Lui tenta di afferrarla, ma lei si sta già trasformando in alloro. Apollo, bello e sensuale, la cinge dolcemente....Poi, PER FORTUNA, arrivo alla Paolina Borghese del Canova, la diva della mostra, adagiata sul triclinio, con uno sguardo rassicurante, calma, perfetta. Meno male, i bollenti spiriti sono rientrati in zona Cesarini, o, forse, dovrei dire in prossimità della linea di meta…










giovedì 25 settembre 2008

La miglior vendetta di E. George

"La miglior vendetta" di Elizabeth George, Edizioni Piemmepocket. Titolo in originale Payment in blood.
Una compagnia teatrale londinese si riunisce nel castello di Westerbrae, in Scozia, per leggere un nuovo testo da mettere in scena. Dopo una serata di litigi, l'autrice della pièce, Joy Sinclair, viene trovata morta nel suo letto, pugnalata al collo. New Scotland Yard manda in tutta fretta sul posto l'ispettore Thomas Lynley e il sergente Barbara Havers. Il caso è molto delicato: nell'omicidio sono coinvolte personalità del mondo teatrale, persone di alto rango e Helen Clyde, la donna di cui è innamorato l'ispettore. Il movente del delitto affonda le radici nel torbido passato di molti ospiti del castello e l'ispettore Lynley si trova coinvolto in vecchi scandali di famiglia e diversi colpi di scena.
Che dire di questo libro? bello, bello, bello!! Sarà per la trama (una compagnia di attori riunita in un castello scozzese per provare un dramma è molto appetibile), ma il libro mi ha coinvolto dalla prima all'ultima pagina! Questa è la Elizabeth George che mi ricordavo: avvincente, ogni fine capitolo ti lascia in una suspense continua. Insomma, è un thriller ben costruito, corredato da diversi e spiazzanti colpi di scena nelle pagine finali. Un plot degno di Agatha Christie! Eh, sì, in questo romanzo la George trae spunto da Agatha, per le atmosfere tipicamente inglesi e per le modalità di svolgimento del delitto: l'assassino si cela tra uno dei membri del cast, così anche noi possiamo "tirare e indovinare" chi può essere stato.
Lo consiglio a chi piacciono i gialli in tipico stile inglese, ma con un tocco di modernità. Sì, perché i personaggi della George sono più veri e non stereotipi come quelli della Christie. L'ispettore Lynley, il protagonista, è un uomo con le sue paure, i suoi dubbi e incertezze; non è di certo "perfettino" come Poirot!
All'inizio del libro, devo ammetterlo, mi è venuto a volte da ridere: la compagnia di attori, i loro comportamenti viziati e da bambini cresciuti (vi dico solo che la prima attrice, alla notizia della morte dell'autrice, si preoccupava soltanto del suo contratto) mi ricordavano troppo Bosetti &C. Però, giuro, non ho preso spunto dal libro per uccidere qualcuno degli attori!!
Una cosa strana: il romanzo è presentato sulla copertina come uno degli ultimi scritti dalla autrice, ma l'ispettore non è ancora sposato con la sua bella, siamo appena all'inizio della loro storia d'amore: come è possibile? In "Cercando nel buio", il libro pubblicato prima di questo, sono sposati da tempo e lei è incinta!! Mi chiedo, ma i critici li leggono davvero i libri??? Mi sa di no: non si sono neanche accorti che in ogni romanzo la vita dei protagonisti procede?? Mah...!
Una nota sul titolo in traduzione. Mi piacciono di più i titoli in italiano: quelli originali suonano così "apocalittici"!!! Per una volta i traduttori non si sono lasciati prendere la mano...

Notizie da un'isoletta di B. Bryson

"Notizie da un'isoletta" di Bill Bryson, Edizioni Guanda, titolo in originale Notes from a Small Island.
Annoverato tra la letteratura di viaggio, "Notizie da un'isoletta" racconta del tour di addio dell'autore alla Gran Bretagna. Dopo avere vissuto per quasi vent'anni in Inghilterra, Bryson decide di tornare negli Stati Uniti, suo paese natale. Ma prima vuole dare un'ultima e nostalgica occhiata di addio all’ isoletta del titolo, che è stata la sua seconda patria per molto tempo.
Così in sette settimane, zaino in spalla, risale da Dover a John O' Groats (nell'estremo nord dell'Inghilterra), toccando diverse località più o meno conosciute: Londra, Oxford, Leeds, Liverpool, Blackpool, Durham, Edimburgo, Aberdeen, Inverness, Glasgow, Carlisle e altre ancora (all'inizio del romanzo c'è una interessante cartina dell'Inghilterra con tutte le località visitate dal nostro autore). Il tutto in treno, in autobus o persino a piedi.
Il romanzo è stato definito una "corposa istantanea della Gran Bretagna", fotografata naturalmente con humor, curiosità e grande sensibilità. Sono d'accordo con questa definizione. Il libro è effettivamente un affresco che descrive i pregi e i difetti di questa piccola ma grande nazione. L'occhio di Bryson è attento ai diversi particolari delle città inglesi e ce le fa scoprire da un punto di vista personale, a volte disilluso, a volte sognante e a volte molto umoristico.
A proposito di quest'ultima riflessione, ho trovato divertente la descrizione della cartina della metropolitana di Londra, "disegnata", secondo Bryson, " con l'ordinata precisione di un circuito elettrico", che ricrea una città sotterranea che non ha nulla a che vedere con la Londra reale, caotica e disordinata. In poche parole: se dovete andare da Bank Station a Mansion House, dovete prendere la Central Line fino a Liverpool Street, cambiare per la Circle Line, direzione est e fare altre cinque fermate. Una volta usciti dalla metro, vi renderete conto di essere avanzati di duecento metri sulla stessa strada...
Anche l'osservazione riguardo i nomi esotici delle stazioni mi trova d'accordo: "sopra di voi non c'è una città, ma un romanzo di Jane Austen". Verissimo!! I nomi delle stazioni sono tutti molto affascinanti: Blackfriars, Oxford Circus, Swiss Cottage, White City, tanto per citarne alcuni; beh, niente a che vedere con le fermate della linea gialla milanese...! (la più esotica è porto di mare, fate voi...)
Per il resto, mi ha affascinato la descrizione, molto commovente, devo dire, della cattedrale gotica di Durham.
Ero incuriosita dalla descrizione delle città e dei paesaggi scozzesi, ma sono rimasta un po' delusa: è come se l'autore si fosse affrettato a concludere il libro, perché le ultime località sono descritte in poche parole.
Nel complesso il libro mi è piaciuto, anche se non condivido tanto lo spirito con il quale è stato scritto: tornare nelle località della propria giovinezza per dare l'ultimo saluto, è come tornare un po' sul luogo del delitto. E' meglio conservare il ricordo dei luoghi che ci hanno resi felici nel nostro cuore.
Lo stile narrativo dell'autore mi ha ricordato molto Beppe Severgnini, ma Bryson è sicuramente più arguto e uno scrittore di maggiore peso, tratta gli argomenti meno superficialmente. Il romanzo, infatti, è scritto bene, è piacevole, lo consiglio, soprattutto agli amanti dell'Inghilterra.
Infine, ho scelto di leggere questo libro un po' per l'argomento, un po' perché mi ha attirato il titolo (simpatico), un po' per la copertina (la mia debolezza...) e un po' perché mi sono lasciata guidare dalla casa editrice. La casa editrice Guanda, infatti, pubblica molti libri di scrittori inglesi di talento, tra i quali cito solo Nick Hornby (l'autore di "About a boy", "Febbre a 90").

martedì 23 settembre 2008

Non buttiamoci giù di N. Hornby

"Non buttiamoci giù" di Nick Hornby, Guanda Editore, titolo in orignale
A Long Way Down.
La notte di Capodanno, in cima ad un palazzo di Londra, si incontrano per caso quattro sconosciuti. Non hanno nulla in comune, tranne il fatto che vogliono buttarsi di sotto. Martin è un famoso conduttore televisivo che si è giocato la carriera andando a letto con una minorenne. Maureen è una donna che ha dedicato la sua vita al figlio gravemente disabile. Jess, adolescente sboccata e molesta, vuole farla finita perché il fidanzato l' ha mollata. L'ultimo è l'americano JJ, un musicista fallito e deluso dalla vita. Dopo una serie di fatti curiosi, i quattro decidono di scendere dal tetto e di affrontare insieme il difficile compito di ricominciare a vivere.
Romanzo corale, non è uno dei migliori di Hornby, anche se il tema trattato porta ad una serie di riflessioni interessanti. Ad esempio: chi pensa al suicidio? Le persone sensibili, anzi direi quelle troppo sensibili per vivere. Come dice uno dei protagonisti del libro:
" Alcuni che sono morti, gente troppo sensibile per vivere: Van Gogh, Virginia Woolf, Jackson Pollok, Primo Levi, naturalmente Kurt Kobain. Alcuni che son vivi: George W. Bush, Arnold Schwarzenegger, Osama Bin Laden. Mettete una crocetta di fianco alle persone con cui potrebbe piacervi bere qualcosa, e poi guardate quali stanno tra i morti e quali tra i vivi..."
Ho sempre considerato le persone inclini al suicidio come persone molto profonde che avessero motivazioni altrettanto profonde per "buttarsi di sotto". Questo libro, invece, mette in scena quattro persone normali che conducono una vita normale, ma con il male di vivere. Le loro motivazioni non sono grandi motivazioni, sono spinti al suicidio anche da cause banali (il fidanzato mi ha mollato e voglio farla finita) . Ma non importa quale sia la motivazione; queste persone non hanno nulla a cui aggrapparsi, non vedono alcuna luce che li guidi dal fondo del baratro in cui sono caduti. Non ci vogliono grandi motivazioni per farla finita, basta soltanto la motivazione di non avere neanche una pur minima scappatoia. Allora la mia domanda è: perché si arriva a tutto questo? perché alcune persone non riescono a sopravvivere? chi riesce a sopravvivere? Come ha detto una volta il mio insegnante di cinema (il mitico Carlo Cesaretti), il mondo che ci circonda è uno schiacciasassi e quelli che sono troppo sensibili, fanno il doppio della fatica rispetto ai superficialoni a trovare il proprio posto e uno scopo nella vita.
La morale, alla fine, è sempre quella: non si riesce a sopravvivere senza l'aiuto delle persone che ci circondano.
Il personaggio di JJ è l'alter ego di Hornby. Le sue riflessioni sono molto più sentite di quelle degli altri personaggi. Lo stile di scrittura si adatta a seconda del personaggio. Hornby si cala al cento per cento nella psicologia del personaggio, e per questo motivo è a tratti difficile da seguire, soprattutto i dialoghi in slang giovanile.
Consiglio il romanzo a coloro che sono su di morale! Certo non è una passeggiata leggerlo, perché, come ho detto prima, scava parecchio a fondo. Vale comunque la pena.

Cercando nel buio di E. George

"Cercando nel buio" di Elizabeth George, TEA Edizioni. Titolo in originale A Traitor to Memory.
La storia ha inizio a Londra in una notte buia e tempestosa: una donna, Eugenie Davies, viene travolta intenzionalmente da un'auto sbucata dall'oscurità. Chi e perché ha ucciso la madre del famoso violinista Gideon Davies? Forse questo ha a che fare con il fatto che il violinista è stato colpito inspiegabilmente da una grave forma di amnesia che da mesi gli impedisce di suonare?
A seguire il caso c'è Thomas Lynley, ispettore di New Scotland Yard e la sua aiutante, Barbara Havers.
Ho letto diversi libri della George e questo non mi ha entusiasmato molto: ho fatto fatica ad arrivare in fondo. Sono ben 737 pagine e solo nelle ultime 100 la vicenda riesce ad appassionare un po'.
L'ambientazione del romanzo, come tutti quelli dell'autrice, è inglese. I protagonisti sono sempre gli stessi: l'affascinante ispettore di New Scotland Yard, Thomas Lynley, naturalmente bello, ricco e nobile (potrebbe tranquillamente ritirarsi a fare il Lord di campagna nella sua proprietà in Cornovaglia), sposato con una Lady (...). Il braccio destro dell'ispettore è il sergente Barbara Havers, la tipica donna grassoccia, bruttarella, un po' avanti con l'età , ovviamente zitella. Infine, i coniugi St James (la coppia felice...), che aiutano i due personaggi principali nelle indagini.
"Cercando nel buio", come ho detto prima, è un po' noioso. I capitoli dedicati alle indagini (pochi e brevi) si intervallano con capitoli in cui si concentra l'attenzione sul violinista: lunghe e barbosissime sedute psicoanalitiche, nelle quali il ragazzo va alla ricerca del perché ha avuto questo blocco nel suonare. Tutto questo dovrebbe essere funzionale alla narrazione e svelare a poco a poco come sono andati realmente i fatti e farci capire chi è il colpevole. In realtà non è così: l'autrice, secondo me, non riesce a creare la giusta tensione e suspense. Infatti ho scoperto l'assassino e le motivazioni che lo hanno indotto ad uccidere circa a metà del libro.
Non mi è piaciuto, insomma, il modo in cui la George ha dipanato la matassa: la storia è molto incentrata sul violinista e poco sulle indagini. Il caso è sì risolto, alla fine, dagli investigatori, ma il tutto è svelato dalle sedute psicanalitiche del ragazzo. Scotland Yard non fa altro che arrestare, alla fine, il colpevole. C'è poca azione e troppa psicologia.
Quello che mi piace di questa scrittrice è che ha un modo di scrivere molto realistico, poco romanzato, a volte, addirittura, molto crudo, nel descrivere le situazioni. Mostra la realtà, anche la più scomoda, così com’ è. I problemi di scottante attualità, infatti, che riguardano la nostra società, sono affrontati come realmente sono e si presentano. Tanto per citarne alcuni: i giovani e la droga, la vivisezione degli animali, l'alcolismo.
I personaggi sono tutti ben definiti da un punto di vista psicologico. Dei protagonisti, in particolare, si dice molto sulla loro vita. In ogni romanzo la vicenda personale dei protagonisti procede, non rimane sempre la stessa. Infatti i libri della George andrebbero letti in ordine cronologico.
Questo è interessante, perché il personaggio non rimane fossilizzato e stereotipato nel suo carattere, ma si evolve con l'evolversi della sua vita personale. In ogni romanzo il personaggio acquisisce sfaccettature diverse. E' interessante, a mio avviso, che l'autrice sviluppi, parallelamente alle indagini, la vita dei personaggi principali.

venerdì 19 settembre 2008

La donna del fiume di C. Robb

"La donna del fiume" di Candace Robb, Edizioni Piemmepocket, titolo in originale The King's Bishop.
Inghilterra, 1367. Quando il cadavere del giovane paggio del potente sir William viene trovato in un fossato, tutti i sospetti cadono su Ned Townley, spia al servizio del Duca di Lancaster. Poco prima del delitto era stato proprio lui a minacciare il ragazzo, ed erano in molti ad averlo udito.
Una volta venuto a conoscenza della morte, a Londra, della sua fidanzata e colpito da una seconda accusa di omicidio, Ned non può fare altro che affidarsi al suo vecchio amico, Owen Archer. Sarà proprio quest'ultimo a dover fare luce sulla complessa trama di intrighi in cui Ned è intrappolato e sciogliere il segreto che si cela dietro quelle morti. Un segreto che qualcuno molto vicino al re vuole difendere a tutti i costi.
Ho scelto di leggere questo libro per pura curiosità: l' autrice viene indicata come un nuovo talento della letteratura thriller medievale e volevo toccare con mano se era vero. Devo dire che è brava; il libro mi è piaciuto, è scritto bene, riesce a creare quella giusta suspense che ti invoglia ad andare avanti nella lettura.
In più, i fatti narrati sono storia vera e i personaggi realmente vissuti nel XIV secolo. E' interessante il fatto che la Robb si sia basata su fatti storici e personaggi reali e abbia dato una sua interpretazione di come possano essere andate le cose, di come i protagonisti possano essersi comportati nella vicenda e di quali tresche potevano celarsi dietro ai fatti storicamente riconosciuti.
Nel romanzo, infatti, si intrecciano due vicende storiche: la battaglia di Re Edoardo III per far nominare William di Wykeham vescovo di Winchester, e la misteriosa relazione di Alice Perrers con sir William di Wyndesore. Ovviamente sono andata a controllare sul libro di storia medievale, ma ho trovato informazioni solamente su re Edoardo III e soltanto di tipo politico; gli altri personaggi, anche se realmente esistiti, sono di importanza minore e non vengono trattati in un libro di testo. Probabilmente in un testo di sola storia inglese può essere trovato un accenno ai protagonisti della vicenda. Alla fine della storia fa capolino un altro personaggio realmente esistito: Goffrey Caucher, poeta inglese, noto ai più per avere scritto "I racconti di Canterbury". Nel romanzo viene presentato come "un cortigiano che ha scoperto di essere un poeta", dotato di sottile arguzia e "tra i pochissimi uomini a corte capace di strappare una risata a Edoardo III".
Come dicevo prima, il romanzo è storico e basato su fatti realmente accaduti. Mi sarebbe piaciuto, però, se l'autrice si fosse soffermata di più sui diversi particolari della vita quotidiana. Mi spiego meglio: la moglie di Owen Archer, uno dei protagonisti, è farmacista; si poteva prendere spunto da questo per descrivere i rimedi dell'epoca per le persone malate. Oppure, poteva descrivere meglio le condizioni di vita del tempo. Si poteva, insomma, soffermare di più sulla storia non ufficiale, apparentemente insignificante, ma molto interessante.
Comunque, la volontà c'è: in fondo al libro troviamo un interessante glossario per i non addetti ai lavori, che dà la spiegazione di alcuni termini del linguaggio dell'epoca usati nel romanzo.
I protagonisti sono tratteggiati a grandi linee, non c'è molto scavo psicologico. Ho trovato la scrittrice molto brava nella descrizione delle situazioni e nella costruzione dei dialoghi, realistici per l'epoca.
Una nota sul titolo italiano: "La donna del fiume" c'entra un po' come i cavoli a merenda! Il titolo originale, infatti, fa riferimento ad uno dei personaggi principali del romanzo, che tira un po' le fila della storia, il vescovo, appunto. Mentre la donna del fiume è una misteriosa levatrice che compare pochissime volte. Mah, sarà che faceva più scena dare questo titolo...

lunedì 15 settembre 2008

Lo Stadio Flaminio

Roma, 22 agosto 2008, ore 12.49…
Da Villa Borghese ci sono voluti una manciata di minuti per arrivare. Sono in macchina con un’amica, le strade di Roma sono stranamente deserte, forse è complice anche l’ora. Sono emozionata, stiamo puntando verso lo Stadio Flaminio, il tempio italiano del rugby, la sede delle partite della Nazionale Italiana al 6 nazioni! Passiamo per uno dei quartieri più “in” della città, i Parioli. Scorgo tra gli alberi gli alti piloni delle luci dello stadio. Poi…eccolo! parcheggiamo proprio lì davanti. Scendo dalla macchina e provo all’improvviso un po’ di malinconia: tutto intorno a me è deserto e silenzioso. E’ come stare in un teatro vuoto, dove non ci sono né attori, né spettatori, a sipario calato, a rappresentazione finita. Ma poi mi sono avvicinata al cancello, alla mia entrata, alla mia tribuna scoperta e sono affiorate le emozioni: ho visto me salire le gradinate e prendere posto per assistere ad uno degli spettacoli sportivi più belli; ho visto il pullman della Nazionale arrivare nello spiazzo; ho visto Mauro e Mirco scendere con la grinta dei gladiatori pronti alla battaglia; ho visto la folla di tifosi arrivare festante; ho visto i pali della linea di meta…chissà quante mete faremo oltre quella porta…


giovedì 11 settembre 2008

Lampi d'estate di P. G. Wodehouse

"Lampi d'estate" di P.G. Wodehouse, Edizioni TEADUE, titolo in originale, Summer Lightning
"Lampi d'estate" fa parte del ciclo del Castello di Blandings, residenza di Lord Emsworth che si trova nello Shropshire, a poche ore di treno da Londra. Il Castello, risalente a circa la metà del XV secolo, sorge isolato, circondato da un vasto parco, un piccolo lago, campi da tennis, il giardino delle rose, gli orti...insomma la tipica magione inglese di fine Ottocento. Questo luogo è lo scenario delle storie del Castello, dove si aggirano personaggi irresistibili: nobili attempati, giovani ereditiere, artisti squattrinati, gelide aristocratiche, governanti fedeli, maggiordomi inappuntabili e saggi porcai.
Protagonista del ciclo è il personaggio senza dubbio più divertente: Lord Clarence, nono Conte di Emsworth, vecchietto sulla sessantina, vedovo, un po' rimbambito, afflitto da una sordità psicosomatica, che ama soprattutto la pace e il silenzio. Ha una grande passione: la sua scrofa da competizione, l'Imperatrice di Blandings. Come dice lo stesso Wodehouse: "Gli occhi miti di Lord Emsworth brillavano sempre quando nominava quel nobile animale, l'Imperatrice di Blandings. Il nono conte era un uomo di poche e semplici ambizioni. Non aveva mai desiderato forgiare i destini dello Stato, dettarne le leggi e far discorsi alla Camera dei Lord [...] Tutto ciò cui aspirava, quale riconoscimento da farlo accogliere nell'England's Hall of Fame, era riuscire a far vincere per il secondo anno consecutivo il primo premio [...] alla sua scrofa di razza, l'Imperatrice di Blandings, appunto, alla Fiera dello Shropshire, categoria porcelli grassi".
I romanzi di Wodehouse rappresentano la classica commedia degli equivoci. In ogni romanzo, infatti, ritroviamo i classici ingredienti: coppie di innamorati il cui matrimonio è impedito da genitori e parenti, scambi di persona, deus ex machina... E' uno Shakespeare in prosa, meno lirico, ma altrettanto arguto e divertente.
In "Lampi d'estate" troviamo Lord Emsworth angosciato per la sparizione della sua amata scrofa. Ovviamente il rapimento è stato architettato dal nipote del conte, che vuole sposare una ballerina e che crede di ricevere la approvazione dello zio (e anche una grossa somma di denaro per la futura vita matrimoniale!!) se fa finta di avere ritrovato eroicamente l'Imperatrice.
Preoccupazione maggiore, però, che aleggia per tutte le pagine del romanzo, è la minaccia della pubblicazione di un libro di memorie del fratello del conte, Galahad Threepwood. Affettuosamente chiamato dai familiari "Gally", è l'unico membro dello sterminato parentado di cui Lord Emsworth ricerchi la compagnia. Conclusa la carriera di libertino per raggiunti limiti di età, si aggira per Blandings meditando, appunto, di pubblicare le sue Memorie, dove si raccontano aneddoti divertenti e dissacranti che riguardano tutti o quasi tutti i nobili di Inghilterra. Personaggio svagato e divertente, è lui il deus ex machina della situazione: interviene al momento giusto per rimettere le cose al loro posto.
Gli altri personaggi che fanno da contorno alla vicenda sono la sorella del conte, Lady Constance, la classica severa aristocratica inglese, quella che teme più di tutti la pubblicazione del libro: ha già un fratello "matto" che pensa solo al bene di una scrofa, ci manca anche l'altro che getta ridicolo sulle persone più potenti d'Inghilterra, raccontando le marachelle che hanno commesso in gioventù!! Troviamo anche un investigatore pasticcione, ingaggiato dal conte per ritrovare la scrofa, il segretario di Lord Emsworth, innamorato, naturalmente, della bella nipote del conte e il nemico di sempre, Sir Gregory Parsloe-Parsloe, concorrente di Lord Emsworth nell'allevamento dei suini, che acquista una scrofa eccezionalmente grassa, la Regina del Matchingham, per gareggiare contro l'Imperatrice.
Degno di nota, infine, è il personaggio del classico maggiordomo inglese, Beach: "[...] faccia da candidato alla apoplessia, artritico, con aria di dignitosa apatia , mani grassocce e occhi appannati. [...] Soffre spesso di terribili emicranie, presumibilmente dovute al terrore che nutre nei confronti del socialismo" .
Il libro è molto divertente, mi è piaciuto, come tutti i libri di Wodehouse: non ci sono grosse novità circa la trama o i personaggi rispetto agli altri romanzi che ho letto. Quello che diverte di più, a mio avviso, è lo stile della narrazione: veloce, arguto, pieno di humor.
Comunque, secondo me, si ride a prescindere: se si pensa che il protagonista del romanzo è un conte inglese che ha come unico scopo della sua esistenza la cura di una scrofa...

Sai Tenere un Segreto? di Sophie Kinsella

“Sai tenere un segreto?” di Sophie Kinsella. Edizione I Miti Mondatori. Titolo in originale Can You Keep a Secret?
Emma Corrigan è una ragazza come tante. Ha 25 anni, è carina, è assistente marketing in una multinazionale. Nel viaggio aereo di ritorno da Glasgow a Londra svela tutti i suoi segreti allo sconosciuto seduto di fianco a lei, convinta che non lo rivedrà mai più. Ma il giorno dopo, in ufficio, scopre che lo sconosciuto dell’aereo è il mega dirigente americano, fondatore dell’azienda per la quale lei lavora. Lui saprà tenere il segreto?
Il libro è divertente e scorre via velocemente. La protagonista è un po’ stereotipata, come tutte le eroine di questi romanzi rosa: è una pasticciona, ma alla quale, in fondo in fondo, va sempre tutto bene. Si prende il lusso di mollare il bel fidanzato, alto biondo e con gli occhi azzurri che le ha appena chiesto di sposarlo. E per chi? Ma naturalmente per il super-mega dirigente, nonché fondatore della multinazionale per la quale lavora e che è, ovviamente e scontatamente straricchissimo, bellissimo, gentilissimo, innamoratissimo e chi più ne ha, più ne metta!
Emma è proprio una Cenerentola moderna, adattata al nuovo millennio; gli ingredienti ci sono tutti: per prima cosa ha una cugina-sorellastra rimasta orfana che da piccola va a vivere con la famiglia della protagonista e alla quale vanno tutte le attenzioni degli zii; in secondo luogo, in ufficio è considerata l’ultima ruota del carro (mentre la vera Cenerentola puliva i pavimenti, questa viene destinata alle mansioni più basse); per finire, il Principe Azzurro (che nelle fiabe moderne è un uomo sui 35-40, bello, affascinante e ultra ricco, ragazze, prendete nota) che si innamora follemente di lei e la salva da una vita di soprusi lavorativi, promuovendola a responsabile marketing (ma così siamo capaci tutti!!) e che invece del cavallo bianco, è corredato di una limousine grigio metallizzata.
Il tema centrale del libro sono i segreti: è meglio avere dei segreti o spiattellarli alla prima occasione? La morale, secondo me, è che in un rapporto di coppia è meglio essere sinceri il più possibile (anche se tenere per sé qualche piccolo segreto non guasta, tanto per rimanere un po’ misteriosi e tenere in vita il rapporto!). A parte tutto, condivido il punto di vista della scrittrice: con il proprio partner è meglio essere sinceri, dirsi tutto e farsi conoscere realmente per quello che si è, con i propri pregi e difetti, punti di forza e debolezze. E questo credo che dovrebbe valere in generale, per qualsiasi tipo di rapporto affettivo. E’ inutile nascondersi dietro una facciata ipocrita che non ci appartiene: risulteremmo solo falsi, poco spontanei e poco credibili, in due parole, ridicoli. Prima o poi la verità salta fuori, tanto vale farsi conoscere così come si è: se gli altri non ci apprezzano per come siamo, non vale la pena di frequentarli. Quanto tempo prezioso si risparmierebbe!!
Nonostante io critichi (quasi) sempre questi libri rosa, soprattutto per l’inverosimilità delle storie, continuo e continuerò imperterrita a leggerli, perché sono scritti bene e sono molto divertenti. Sono piacevoli da leggere, ti fanno sognare un po’ e ti distaccano dalla cruda realtà!!! Anche se raccontano di storie inverosimili, è bello immedesimarsi nelle protagoniste e “vivere” con loro la storia di cui fanno parte.
Comunque, anche se sembrano superficiali, contengono un fondo di verità. Mi riferisco soprattutto a quello che le protagoniste provano quando si trovano ad affrontare alcuni problemi, sentimentali e non: molte volte mi sono sorpresa a pensare “anche io mi sono sentita così”, “anche io la penso in questo modo” o “anche io avrei reagito allo stesso modo”. Questo dimostra, a mio avviso, che queste scrittrici rosa sanno bene il fatto loro e sanno bene come arrivare alle lettrici: le protagoniste sono stereotipi (con le quali ci immedesimiamo perché tutte noi vorremmo avere storie simili a lieto fine, ammettiamolo) ma hanno sentimenti veri, reagiscono alle cose della vita come le persone comuni.

Il Codice da Vinci di Dan Brown

Il “Codice da Vinci” di Dan Brown, edizioni Mondadori, titolo in originale The da Vinci Code.
Cominciamo dal contenuto, tratto direttamente dalla quarta di copertina: in una tranquilla notte parigina, nella Galleria del Luovre, viene assassinato il vecchio curatore Saunière. Accanto al suo cadavere la polizia trova ciò che lo storico dell'arte è riuscito a scrivere prima di morire: alcuni numeri, poche parole e il nome di Robert Langdon, celebre studioso di simbologia. Sarà proprio quest'ultimo a capire che il collega gli ha lasciato un messaggio oscuro e pericoloso, che lo mette a confronto con uno dei più grandi geni della storia, Leonardo da Vinci. Chi era Leonardo? Che segreto si cela nei suoi dipinti e nelle sue invenzioni? Sono questi gli interrogativi che Langdon deve risolvere per capire i segreti di una potente setta che sta tentando da secoli di trasformare la storia dell'umanità.
Mi stupisco come questo libro abbia avuto molto successo in Europa. Gli americani sono dei bambinoni, questo lo sappiamo bene: basta solo accennare ad una leggenda della vecchia Europa, che vanno in brodo di giuggiole e non capiscono più niente; sono affascinati (data la loro ignoranza in campo umanistico) da argomenti che per noi sono triti e ritriti. Mi ha fatto molto ridere, a tale proposito, quando i tre protagonisti (tutti esimi e stra-titolati crittologi, storici dell'arte e studiosi di simbologia) stanno pagine e pagine a lambiccarsi per scoprire che Leonardo scriveva da destra a sinistra, in modo speculare. Ma per piacere! Questo si sa dalle scuole medie!!!! E' la prima curiosità su Leonardo che gli insegnanti raccontano agli studenti.
Senza pensare poi alle prodezze pseudo hollywoodiane che i personaggi compiono. Ma come è possibile credere che un uomo anziano con una pallottola nello stomaco riesca a staccare dalla parete un quadro abbastanza grande e pesante, preparare diversi indovinelli e scriverli in pochi minuti, andare da una stanza all'altra di un museo (l'azione si svolge nel Luovre, quindi le sale sono molto ampie...), a spogliarsi completamente, posizionarsi come l'uomo vitruviano e morire...e il tutto condotto con una lucidità pazzesca! Provate voi a fare tutto quel chiasso al museo del Louvre in piena notte e poi vediamo cosa succede!
Insomma, il Codice da Vinci è un giallo sconclusionato e scritto in maniera superficiale, dove non succede assolutamente nulla e dove le sconvolgenti scoperte narrate sono già note. Durante la lettura mi sembrava di assistere ad una lezione del professorino Dan Brown, che per rendere meno noiosa l'ora di lezione, si inventa la favoletta della crittologa e dello studioso di simbologia in caccia dell'assassino. Le tesi dell'autore, che lui cerca di spacciare per rivoluzionarie, sono vecchie, superate, attendibili quanto le promesse di un marinaio e la storia di contorno assolutamente inverosimile.
E qui arriviamo ai personaggi: non hanno un minimo di spessore e sono tutti già visti. C'è il professore cinquantenne, belloccio, scapolo, paragonato dallo stesso autore a Indiana Jones (...); l’affascinante crittologa dai capelli rossi, anglo-francese (e sennò, come fanno a comunicare i due!) che manda in visibilio tutti gli esseri umani di genere maschile; il monaco albino, grande e grosso, un po' scemo (vi dice qualcosa "Il nome della rosa" di Eco?); il poliziotto francese tutto d’un pezzo, perseguitato dalla classica sfiga, che arriva sempre un secondo troppo tardi; il super-mega-ultra miliardario inglese, trasferitosi in Francia, che sa tutto e risolve tutto. Insomma, la classica sceneggiatura da film americano, dove non manca, udite udite, lo scontatissimo happy end, con tanto di bacio al tramonto nella campagna scozzese (esiste qualcosa di più romantico?!).
I personaggi risolvono enigmi da settimana enigmistica per i più piccoli dopo folgorazioni celestiali; mentre il lettore sogghigna (perché ci è arrivato anni luce prima di loro) e va avanti nella lettura, non tanto perché preso dalla trama, quanto perché vuole vedere quanto sono idioti i protagonisti e quante pagine ci mettono a risolvere l'arcano. Effettivamente, è stato proprio questo che mi tenuta incollata al libro. Devo dire che mi sono fatta delle grasse risate.
Ma lo conosce Dan Brown il clima culturale dell'epoca di Leonardo? I grandi artisti come Leonardo e Michelangelo avevano altro a cui pensare che infarcire i loro quadri di simboli e messaggi cifrati da mandare ai posteri. E comunque, a me non viene da accostare una figura come Leonardo, il prototipo dello scienziato, alle sette segrete. Una personalità come lui, estremamente razionale.. per me stona un po'... Mi viene addirittura da pensare che il nostro Dan non sappia che da Vinci non è il cognome di Leonardo, ma indica la città di provenienza....
E poi, tutte quelle fesserie sul Santo Graal!Con una forzatura sulla etimologia si arriva, a grandi linee, a questo risultato: Santo Graal = Sang Real (in una presunta lingua celtica) = Sangue Reale = Sangue del figlio di Gesù e Maddalena = ventre di Maddalena. Che bella equazione matematica...
Io non so molto sul Graal, ma fonti molto attendibili e preparate, mi hanno assicurato che il Graal è proprio una coppa, tangibile, che è stata ritrovata un po' di anni fa... Secondo me è più preparato Steven Spielberg che in "Indiana Jones e l'ultima crociata" ci racconta che la leggendaria coppa esiste davvero e ce la fa pure vedere!
Quali altre avventure affronterà nei prossimi romanzi il nostro Langdon? Andando avanti di questo passo il nostro caro Dan ci svelerà qualcosa sul caso Roosevelt o, ancora più importante, chi ha ucciso Kennedy...
La domanda che mi è sorta spontanea è questa: ma non è che Dan Brown ha scritto volontariamente un libro pieno di errori e sciocchezze per vedere quanti ci cascavano? E' preoccupante constatare che ci sono cascati in tanti; ma è ancora più preoccupante e deludente la mancanza di rispetto per i lettori. Sì, perché se le cose stanno così, l'autore ha contato proprio sull' ignoranza dei lettori, che hanno preso per vere tutte le sue strampalate teorie, salutandolo come il nuovo grande studioso, detentore di chissà quali verità.
Che altro dire? se lo leggete, vi do' un avvertimento da setta segreta: non credete a tutto quello che Brown vi racconta sulla interpretazione dei quadri e su Leonardo: sono tutte fandonie! A cominciare dalla bufala del millennio relativa all'ultima cena. Dan Brown sostiene che il personaggio vicino a Gesù non sia S. Giovanni evangelista, ma Maddalena. Ma quale Maddalena? S. Giovanni è solo un giovinetto al momento della Passione e quindi viene sempre rappresentato con tratti giovanili rispetto agli altri apostoli (senza barba e con i lineamenti del viso non propriamente maschili com’è tipico dell’età pre-puberale). Anche in altre rappresentazioni che riguardano lo stesso tema dell’ultima cena viene sempre raffigurato con questo atteggiamento, come se fosse addormentato, ad indicare la sua estraneità al tradimento: la sua coscienza è così pulita, che riesce a dormire anche in quel momento di estrema tensione per gli altri apostoli. E poi mi pare naturale l’atteggiamento di tutti gli altri apostoli, ovviamente sconvolti per l’affermazione appena fatta da Gesù, ovvero che uno di loro lo avrebbe tradito. Ci sono molti simbolismi nascosti nelle opere di Leonardo, ma non sono certo così banali...

giovedì 24 luglio 2008

Sushi per principianti di Marian Keyes

"Sushi per principianti" di Marian Keyes, Edizione Super Tascabili Sperling. Titolo in originale Sushi for beginners.
La trama: Lisa, molto sexy (bella, alta, bionda e con gli occhi azzurri) e molto grintosa lascia Londra per Dublino, dove viene spedita dal suo editore per il lancio di una nuova rivista femminile. Lasciare Londra per Dublino, città di provincia, è una tragedia per lei, sia dal punto di vista lavorativo (puntava al trasferimento nella grande mela) che psicologico: una donna super-trendy in un buco di città. Ad attenderla a Dublino c’è Ashling (co-protagonista del libro), il suo esatto contrario: ansiosa, con poca fiducia in sé stessa e decisamente poco appariscente. Nel periodo che precede l’uscita della rivista succede proprio di tutto e conosciamo altri personaggi che fanno da sfondo alla vita delle due ragazze.
Il romanzo mi è piaciuto molto. Lo ho comprato principalmente perché è ambientato a Dublino. Vi devo confessare che ho letto il libro tenendo ben aperta sotto di esso la cartina della città. Ogni volta che si parlava di questa o quella via di Dublino, di questo o quel monumento, con aria nostalgica, ripercorrevo con la memoria i luoghi visitati nel classico week end mordi-e-fuggi!
Mi chiedevo: questa è la mia reazione alla visita della città: sono rimasta affascinata da Dublino e l’Irlanda la considero un posto magico e bellissimo, con la sua campagna verde smeraldo e le sue suggestive scogliere a picco sul mare. La protagonista, londinese, la considera (e qui cito l’autrice) un “città di merda”. E’ interessante notare come noi (io) ne abbiamo una visione romantica, mentre gli inglesi la detestano e la considerano una città di provincia. Anche noi milanesi, come i londinesi, viviamo in una grande città europea (tra l’altro grigia, piovosa e umida per la maggior parte dell’anno, proprio come Londra) e non abbiamo la stessa impressione di Dublino. Forse passarci un lungo periodo lavorativo e viverci può dare davvero l’idea di vivere in provincia, in una città che non ti può dare più di tanto. Trasferirsi a Dublino per i londinesi sarà come trasferirsi nel profondo sud per noi milanesi??
Leggendo i commenti di altri lettori del libro, molti lamentano una brutta traduzione e tagli rispetto alla versione originale. Pare che i libri sfornati dalla Keyes siano veri e propri tomi di molte pagine. La versione italiana ha 430 pagine, in più in versione tascabile, quindi di formato ridotto. E’ dunque possibile che del libro originale sia rimasto ben poco. Ad aggravare questa situazione c’è anche una pessima traduzione: termini inglesi tradotti male che alterano la fisionomia del personaggio. Pare non venga fuori la capacità introspettiva dell’autrice, che non dà vita a personaggi stereotipi, ma a persone che si possono incontrare nella vita di tutti i giorni.
Io non ho letto romanzi in lingua originale della Keyes, quindi non posso fare paragoni. Posso solo dire che i personaggi sono più credibili rispetto ad altri in romanzi del genere. In particolare: ci vengono presentate diverse figure femminili che sono la diversa casistica di donna over 30 al giorno d’oggi. Mi spiego meglio: incontriamo Lisa, la donna super-sexy in carriera; Ashling, la ragazza timida e impacciata, bruttarella e insicura, alla ricerca dell’eterno lavoro dei suoi sogni; Clodagh, mamma un tempo bellissima, ora sposata e alle prese con due marmocchi; Trix, la segretaria svampita; Joy, la vicina di casa amica del cuore e diverse altre. Questi personaggi femminili mi sembrano ben delineati, anche se, a volte, devo ammetterlo, è come se mancasse qualcosa.
Ovviamente, alla fine del libro arriva, immancabile, l’happy end: ognuno trova, dopo varie vicissitudini, quello che stava cercando all’inizio della storia. Manco a dirlo, Ashling acchiappa il mega-direttore della rivista per la quale lavora e che è così scontatamente bello, ricco e misterioso…
Io mi chiedo: queste autrici sono così brave a delineare in modo realistico le ansie, le speranze, i sogni di noi fanciulle trentenni, e poi cadono miseramente sullo sviluppo della trama. Ma perché, per una volta tanto non ci raccontano che la protagonista si mette con un tipo normale, che fa un lavoro normale, di aspetto normale??? Perché ci illudono che si può sempre aspirare al top, al principe azzurro? E qui torniamo al vecchio, caro discorso delle vendite e dell’immedesimazione delle lettrici. Ma che me lo chiedo a fare. Se anche i libri di svago ci devono ricordare quanto è dura la vita sentimentale e/o lavorativa al giorno d’oggi, effettivamente ci deprimeremmo subito!
Mi sono chiesta del perché questo titolo, originale, a mio avviso. Nel libro i due personaggi super-trendy (Lisa, la biondona sexy e il suo capo, l’affascinante ed enigmatico Jack) adorano mangiare sushi in ufficio in pausa pranzo, mentre gli altri personaggi “normali” li guardano schifati. Alla fine anche la scettica Ashling verrà iniziata a questo cibo esotico e molto particolare. Secondo me il sushi rappresenta una sorta di metafora: potrebbe significare la voglia di sperimentare qualcosa di nuovo, insolito, fuori dagli schemi. Oppure sushi può essere sostituito con parole come amore, vita; allora diventerebbe amore per principianti? La vita per principianti? Quindi un amore travolgente mai provato prima, una vita nuova e interessante . Mah, magari sono tutte mie congetture e il titolo è stato dato dall’autrice per tutt’altro motivo o per nessun motivo, solamente perché suonava bene intitolare il libro così!

lunedì 23 giugno 2008

La regina della casa di S. Kinsella

“La regina della casa” di Sophie Kinsella, edizioni Mondadori Oscar Bestsellers, titolo in originale The Undomestic Goddess .
Comincio subito col dire che la storia è un vero e proprio plagio! L'avete visto il film "Baby Boom" con Diane Keaton? se non l'avete visto, ve lo riassumo brevemente io: una donna newyorkese in carriera sta per diventare socia di una importante società d'affari, quando una sua lontana cugina, morendo in un incidente stradale, le lascia in eredità la figlia di 2 anni. La nostra "Tiger Lady" si rende improvvisamente conto che il suo orologio biologico si è messo a ticchettare, si scopre madre affettuosa, si trasferisce nel più umano Vermont, allaccia una relazione con il veterinario del paese e vissero tutti felici e contenti.
Mutatis mutandis, la storia della Kinsella è identica: una brillante fanciulla avvocato di Londra sta per diventare socia dello studio più prestigioso ed in vista della città, quando, a causa di un banale errore di procedura, viene licenziata in tronco. Scontato dire che la ragazza scappa dalla città (era più credibile il Billy Christal in crisi in "Scappo dalla città" che ritrovava se stesso facendo il mandriano) e finisce a fare la donna delle pulizie nel Glouchestershire (più o meno è come dire da noi Mandrino di Vidigulfo, o giù di lì...).
Naturalmente la nostra protagonista Samantha si innamora perdutamente dell'aitante giardiniere, muscoloso, abbronzato, dolce, comprensivo (bla, bla, bla...) che scopriamo in seguito aver fatto l'università di agraria e di essere padrone dei pub di mezza città... che sciocchini, davvero credevate che la nostra supergirl si innamorasse del buzzurro di provincia??!!
Diciamo che il romanzo si legge bene, è molto scorrevole e divertente: Samantha non sa assolutamente nulla di cucina e vederla alle prese con la preparazione di improbabili cene è tutto da ridere. Anche se non sono del tutto d'accordo con lo stereotipo della donna in carriera che non sa neanche come fare un caffè.
La storia regge bene fino verso la fine, dove l'autrice cade rovinosamente e continua a rotolare per le successive cinquanta pagine, fermandosi ancora una volta allo scontatissimo e zuccherosissimo happy end.
La caratterizzazione dei personaggi, d'altra parte, è fatta bene ed è divertente, soprattutto la coppia stile "americani di provincia" presso la quale Samantha va a lavorare: sempliciotti, ingenui e sopra le righe, tanto da credere che la loro nuova meravigliosa governante ha studiato alla "Scuola Cordon Bleu"!
Comunque, anche con questo romanzo siamo alle solite: secondo voi la nostra cara fanciulla avrebbe rinunciato alla carica di socio anziano dello studio e ad una sfavillante carriera se non fosse stato per il bel giardiniere? Voleva essere un libro di denuncia dei sacrifici ai quali una donna è costretta in nome della carriera e dove una donna si riappropria della sua vita, del suo tempo e della sua giovinezza, e invece l'autrice mi scade nel romanzetto da Lyala, dove si rinuncia a tutto pur di ì seguire il bel tenebroso... peccato, la Kinsella poteva fare di meglio.
Vabbè, lo consiglio come lettura da ombrellone: le ragazze sogneranno un po' e i maschietti rideranno oltre che delle disavventure della protagonista, anche degli stereotipi maschili...!

I segreti di Londra di C. Augias

"I segreti di Londra" di Corrado Augias, Edizioni Mondadori.
Il libro mi è piaciuto moltissimo, non solo perché si parla di una delle mie città preferite, ma anche, e soprattutto, perché il libro è scritto proprio bene. Inutile dire che Augias si esprime in un italiano perfetto: il suo stile è giornalistico, semplice, incisivo e colto. Dalle righe traspare un uomo di cultura e appassionato: si sente che ci mette il cuore nelle descrizioni delle vicende legate alla città, si capisce che parla di una città che ha vissuto e conosciuto profondamente e non solo studiato sui libri.
Il libro è organizzato in questo modo: ogni capitolo è dedicato ad un monumento di Londra, ad esempio, la statua di Horatio Nelson in Trafalgar Square, il Globe, teatro di Shakespeare, le bellissime case del quartiere letterario di Bloomsbury, la torre di Londra, il Tamigi e molti altri ancora. Partendo dal monumento, Augias ci accompagna per le strade di Londra, svelando storie significative, sconosciute e a volte misteriose che si nascondono dietro le vie, i quartieri e i monumenti. Ogni strada diventa lo spunto per un racconto: la Torre di Londra ci porta al tempo di Enrico VIII e Anna Bolena, il Globe ai bei tempi del teatro di Shakespeare, Trafalgar Square alle gloriose imprese di Nelson, il quartiere di Bloomsbury al circolo letterario Bloomsbury e a Virginia Woolf, Baker Street a Sherlock Holmes, Abbey Road ai Beatles e i magazzini Harrods alla tragica favola di Lady Diana.
Nelle pagine del libro l’autore spazia dall’epoca elisabettiana, all’epoca vittoriana, dalla Seconda guerra mondiale, alla cronaca dei giorni nostri, passando per i favolosi anni Sessanta.
Ci sarebbe molto da dire su questo libro, ogni capitolo è affascinante e bisognerebbe parlarne approfonditamente, ma per non dilungarmi troppo, parlerò solo delle storie che mi hanno tenuta con il naso incollato alla pagina.
Le storie che mi hanno appassionato di più sono quelle di Sherlock Holmes, Jack lo Squartatore, Anna Bolena e naturalmente la lunga dissertazione sul teatro elisabettiano. Questi capitoli li ho letti tutti di un fiato, senza perdere una singola parola, una singola virgola del racconto.
Leggendo il capitolo su Sherlock Holmes, “Elementare, Watson!”, ho scoperto cose interessanti. Prima fra tutte, pare che il mitico Sherlock non abbia mai pronunciato la fatidica frase del titolo. In secondo luogo, questo personaggio di pura invenzione ha una vera e propria casa, al numero 221b di Baker Street, di fronte ad un angolo di Regent’s Park. Mi sa che sarà uno dei primi luoghi che andrò a visitare quando tornerò a Londra; sì perché la casa di Sherlock è una casa-museo: all’interno accoglie i visitatori una giovane hostess, vestita alla maniera vittoriana, come la governante di Holmes. Il capitolo racconta della figura di Sherlock Holmes, come traspare dalle righe dei romanzi di Doyle, dalle descrizioni del Dottor Watson e da come viene interpretato dalla critica: il grande detective viene descritto come un allucinato e intelligente cocainomane; Watson dice di lui: Letteratura zero. Filosofia zero. Astronomia zero. Politica: scarse. Botanica: variabili.[…] Chimica: profonde […] Suona bene il violino.
Poi Augias si sofferma sul metodo investigativo del detective, sempre visto dagli occhi del suo fedele aiutante. Questa seconda parte del capitolo è interessante, perché si mettono a confronto i romanzi di Doyle con altri autori dell’ epoca. Si scopre allora che un elemento che caratterizza i romanzi di questo autore è la totale mancanza di elementi orripilanti, come invece troviamo in Edgar Allan Poe. La cosa buffa che traspare dalla vicenda di Sherlock è che quest’ultimo è trattato dagli inglesi come un personaggio realmente esistito e la casa-museo ne è la testimonianza.
Bello e intrigante il capitolo dedicato ad Anna Bolena, giustiziata per volere del marito Enrico VIII. Qui Augias ci racconta approfonditamente il periodo di Enrico VIII e ci racconta come sono andate veramente le cose tra il re e sua moglie, cose che i libri di storia non raccontano per non dilungarsi troppo in vicende marginali, ma a mio avviso interessanti e fondamentali per comprendere la storia. Non dimentichiamoci che questi uomini e donne leggendari che hanno fatto la storia sono comunque stati esseri umani, non immuni dalle passioni che proviamo anche noi “moderni”. E allora scopriamo che re Enrico ha amato profondamente Anna, ma che dopo diversi anni, si è stufato di lei (perché non gli aveva dato figli maschi, quindi un erede) e l' ha rimpiazzata con un’altra più giovane e "sana"(Jane Seymour). La fa uccidere, decapitandola nel giardino della Torre di Londra, davanti ad una folla convinta del suo adulterio. La descrizione del momento che precede l’esecuzione è di uno sconvolgente realismo: non scherzo dicendo che sembra che Augias sia stato presente al fatto! Probabilmente questo perché non ci racconta della morte di una eroina d’altri tempi, distante secoli e secoli da noi; quella che va al patibolo è una donna innamorata con le sue paure e i suoi sogni infranti.
Come afferma lo stesso autore: Non ci sono più re e regine […]ma solo esseri umani squassati dalle loro passioni e interessi.
Il capitolo “Uno spettro nella notte” affronta la nascita del romanzo gotico, partendo da Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson e dalla figura (realmente esistita?) di Jack lo Squartatore. Viene descritta l’Inghilterra e la Londra ottocentesca, lo scenario nel quale è nato questo genere di letteratura. Il capitolo va letto tutto d’un fiato, perché è un crescendo di tensione, anche grazie a brani sinistri e lugubri riportati qua è là nella narrazione. Non mi sto ad addentrare oltre, ma vi posso assicurare che l’ultima parte affronta la figura del vampiro ed è da brivido!! Il fatto intrigante è che nella Londra di oggi si possono ancora ritrovare le atmosfere dei romanzi gotici; la Londra spettrale e sinistra che emerge dalle pagine degli scrittori gotici esiste ancora: basta andarla a cercare nelle strade dell’East Side. Pare che ci sia anche un tour che ti porta nei luoghi di azione di Jack lo Squartatore!
Tengo per ultimo il mio capitolo preferito, quello sul Globe e Shakespeare, intitolato “Uno specchio alla realtà”. Mi scuso sin da ora se mi dilungherò nel commento, ma il teatro elisabettiano è uno dei generi letterari che preferisco e Shakespeare rimane per me un mito vero e proprio.Inoltre, sono contenta di poter parlare di teatro, argomento che per chi non è avvezzo rimane abbastanza oscuro.
Partiamo dal titolo del capitolo, “Uno specchio alla realtà”, e cioè la funzione che il teatro svolge da secoli: il teatro è come uno specchio offerto agli spettatori nel quale si riflette la realtà.
La testimonianza più tangibile del teatro dell’epoca elisabettiana è il teatro detto “The Globe”, di forma circolare, sulla sponda meridionale del Tamigi, ricostruzione fedele all’originale di una decina di anni fa e voluta da un attore americano, Sam Wannamaker. Nel capitolo si parla di come veniva pensato e usufruito il teatro ai tempi di Elisabetta I e cioè nel XVII secolo. Il teatro ai tempi di Elisabetta era un veicolo di intrattenimento, di conoscenza e non solo per i ricchi: le platee elisabettiane erano formate, per lo più dal popolo; il teatro era lo spettacolo popolare per eccellenza (svolgeva la funzione che oggi ha la televisione).
Il pubblico era costituito da macellai, merciai, fornai, marinai, conciatori, muratori da tutte le categorie artigiane e operaie. Questo sì che è il modo giusto di concepire il teatro! Solo noi italiani abbiamo una visione del teatro elitario, che, ahimè, perdura ancora oggi! Ed è un male, perché il teatro non deve essere considerato un luogo dove si vanno a vedere noiosissime opere (tragedie o commedia che siano), solo perché fa “in”. Il teatro nasce principalmente come luogo delle emozioni. Il teatro, sin dall'antica Grecia, è considerato un luogo di svago, di divertimento e anche di riflessione sul mondo che ci circonda. E così dovrebbe essere ancora oggi.
La cosa che stupisce è che il pubblico elisabettiano non aveva bisogno di tanti apparati scenografici per immedesimarsi, per credere a quello che assisteva: come dice Augias su quelle tavole, con addosso degli stracci colorati, qualche pezzo di vetro, un po’ di stagnola, si mise in scena una delle più potenti e sottili rappresentazioni mai concepite dalla natura umana.
La capacità immaginativa del pubblico elisabettiano era portentosa. Ancora citando Augias: Escono tre attrici che fingono di chinarsi a raccogliere fiori e le tavole del palco si trasformano in un prato. Esce una mezza dozzina di comparse impugnando spade di legno […] il prato è diventato un campo di battaglia e quei sei figuranti sono una schiera di centinaia di uomini in procinto di battersi per vincere o morire.
Come si può pretendere da noi la stessa immaginazione, nell’era della realtà virtuale?
E gli autori che scrivevano per il teatro tenevano conto dei mezzi a disposizione per rappresentare l’opera. Un esempio per tutti: Shakespeare nel suo Enrico V esordisce in questo modo:
[…]
Può questa misera arena contenere i vasti
campi di Francia? E possiamo, questa O di legno,
inzepparla pur dei soli cimieri che atterrirono l’aria
d’Angicourt?
Oh, perdonate!, come una cifra sbilenca
può contenere in breve spazio un milione, permettete a noi
zeri di questa grande somma, di lavorare
sulla forza della vostra immaginazione
.
Forse era per loro più facile immedesimarsi perché gli autori mettevano sulla scena passioni umane di tutti i giorni, non cervellotiche e ambiziose commedie, comprensibili solo con una adeguata preparazione psico-letteraria! Si parlava sì di re e regine, ma questi venivano presentati non come personaggi del mito, ma come uomini soggetti alle emozioni ed ai sentimenti più comuni. Forse anche per questo era più facile immedesimarsi e immaginare. Shakespeare è stato un maestro in questo: a distanza di secoli, le sue opere sono ancora di una sconcertante attualità. E questo, forse perché ha parlato di uomini e di sentimenti, ci ha mostrato la natura umana così come è, e ce ne ha parlato in un linguaggio poetico, ma allo stesso tempo “semplice”, dal momento che si doveva rivolgere principalmente ad un uditorio poco o per niente colto. Augias, infatti, definisce Shakespeare come un sommo interprete dell’umanità e mai definizione è stata più calzante.