lunedì 29 settembre 2008

Quelli del rugby di M. e M. Bergamasco e L. Capizzi

“Quelli del rugby. Fango, mete e fairplay: i segreti dello sport da bestie giocato da gentiluomini”, di Mauro e Mirco Bergamasco e Lia Capizzi, Edizioni Rizzoli.
I fratelli Mauro e Mirco Bergamasco, rispettivamente flanker e tre quarti centro della nazionale azzurra, e Lia Capizzi, giornalista sportiva, ci prendono per mano e ci accompagnano nel mondo del rugby, passando attraverso le regole, la storia, le curiosità, gli aneddoti, le esperienze e le emozioni vissute dentro e fuori dal campo di gioco e narrate direttamente dalla voce dei due fratelli. Al centro del libro, un mazzetto di fotografie, che Mauro e Mirco direbbero tratte dall’album di famiglia, completamento iconografico del viaggio.
Definirei questo libro un piccolo vademecum per chi si voglia accostare a questo meraviglioso e nobile sport.
Per me è stata la prima volta: ci voleva il rugby (qualcuno malignerà che è solo responsabilità dei due aitanti “autori”) per accostarmi ad un libro interamente dedicato ad uno sport. Leggendo questo libro ho imparato che il rugby è uno sport nobile, che ha una lunga tradizione; ho imparato che il rugby è un po' una metafora della vita: tutti noi abbiamo una meta alla quale tendere. Raggiungerla non è sempre facile, ci sono diversi ostacoli da superare, bisogna contare sull'aiuto di chi ci è vicino, a volte bisogna tornare sui propri passi per potere riprendere ad andare avanti e, come nella vita, nessuno ti regala niente per niente. Ma soprattutto ho imparato che il rugby e i suoi giocatori sono portatori di valori importanti, spendibili nella vita di tutti i giorni, come il rispetto per l'avversario, il sacrificio, il coraggio, la passione e un grande cuore.
Il libro si presenta come un'operazione simpatica e, giustamente, senza troppe pretese di insegnare qualcosa a qualcuno, c'è solo la voglia di raccontare per incuriosire il lettore. E, devo dire, che hanno centrato l'obiettivo. Forse perché io non ne sapevo nulla di questo sport, mi sono interessata alle loro parole, soprattutto perché il racconto in prima persona dei giocatori serve anche a sfatare alcuni miti e luoghi comuni. Si scopre, allora, che i rugbisti non sono dei “mangioni”, ma seguono una dieta molto equilibrata; che il terzo tempo è sì il momento di svago, ma mai sopra le righe; che l'immersione in una vasca ghiacciata dopo una partita non è masochismo; che è vero che il rugby è uno sport giocato da gentiluomini, perché è uno sport duro, ma mai violento, perché dopo ottanta minuti di botte, gli avversari si stringono la mano con rispetto.
Mi è piaciuto perché Mauro e Mirco sono ragazzi semplici, che sembrano avere ancora uno sguardo puro ma allo stesso tempo disincantato nei confronti del mondo e della vita, si aprono senza problemi a raccontare anche qualcosa di sé e delle loro emozioni. Ci confessano che il pensiero, dopo ogni partita, va alla mamma, preoccupata che i due figli escano dal campo con le proprie gambe; si confidano nel raccontare la difficoltà di conciliare uno sport professionistico, che non ti assicura un futuro, con lo studio; non ci nascondono che i primi tempi nella loro squadra, lo Stade Français, sono stati difficili, perché li chiama(va)no “les ritals” (termine dispregiativo per indicare gli italiani) perché non parlavano bene la lingua e, diciamolo, spezziamo una lancia in favore dei ragazzi, perché i francesi, anzi i parigini, sono geneticamente antipatici!
Uno sguardo ancora puro, sì... anche se mi sembra che ogni tanto faccia capolino tra le righe il loro compiacimento (in senso buono, si intenda) per essere stati paparazzati o per essere stati ospiti a questa o quella trasmissione televisiva. Dicono che tutto questo è frutto dei loro sforzi per far conoscere il rugby, ma siamo davvero sicuri che tutto questo faccia bene al rugby? Secondo me uno sport del genere non ha bisogno di tutto il contorno mediatico e frivolo per essere apprezzato e amato. E' proprio perché fino ad oggi è stato lontano da tutti questi meccanismi che è uno sport nobile. E che ha molto da insegnare, non solo sul campo da gioco. Non vogliamo che diventi una brutta copia del calcio. Non vogliamo che questo o quel rugbista sia riconoscibile perché sta con una velina o perché è bello. In soldoni: non vogliamo che diventino dei divi. Adesso i giocatori sono riconosciuti per il loro valore in campo, perché eccellono nel loro sport e secondo me è questa la strada da percorrere. Il calcio e i calciatori hanno solo da imparare. E al momento i due sport non c'entrano nulla l'uno con l'altro, sono due mondi diversi, che spero rimangano separati. L'accostamento non può che essere una contaminazione negativa.

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