lunedì 23 giugno 2008

La regina della casa di S. Kinsella

“La regina della casa” di Sophie Kinsella, edizioni Mondadori Oscar Bestsellers, titolo in originale The Undomestic Goddess .
Comincio subito col dire che la storia è un vero e proprio plagio! L'avete visto il film "Baby Boom" con Diane Keaton? se non l'avete visto, ve lo riassumo brevemente io: una donna newyorkese in carriera sta per diventare socia di una importante società d'affari, quando una sua lontana cugina, morendo in un incidente stradale, le lascia in eredità la figlia di 2 anni. La nostra "Tiger Lady" si rende improvvisamente conto che il suo orologio biologico si è messo a ticchettare, si scopre madre affettuosa, si trasferisce nel più umano Vermont, allaccia una relazione con il veterinario del paese e vissero tutti felici e contenti.
Mutatis mutandis, la storia della Kinsella è identica: una brillante fanciulla avvocato di Londra sta per diventare socia dello studio più prestigioso ed in vista della città, quando, a causa di un banale errore di procedura, viene licenziata in tronco. Scontato dire che la ragazza scappa dalla città (era più credibile il Billy Christal in crisi in "Scappo dalla città" che ritrovava se stesso facendo il mandriano) e finisce a fare la donna delle pulizie nel Glouchestershire (più o meno è come dire da noi Mandrino di Vidigulfo, o giù di lì...).
Naturalmente la nostra protagonista Samantha si innamora perdutamente dell'aitante giardiniere, muscoloso, abbronzato, dolce, comprensivo (bla, bla, bla...) che scopriamo in seguito aver fatto l'università di agraria e di essere padrone dei pub di mezza città... che sciocchini, davvero credevate che la nostra supergirl si innamorasse del buzzurro di provincia??!!
Diciamo che il romanzo si legge bene, è molto scorrevole e divertente: Samantha non sa assolutamente nulla di cucina e vederla alle prese con la preparazione di improbabili cene è tutto da ridere. Anche se non sono del tutto d'accordo con lo stereotipo della donna in carriera che non sa neanche come fare un caffè.
La storia regge bene fino verso la fine, dove l'autrice cade rovinosamente e continua a rotolare per le successive cinquanta pagine, fermandosi ancora una volta allo scontatissimo e zuccherosissimo happy end.
La caratterizzazione dei personaggi, d'altra parte, è fatta bene ed è divertente, soprattutto la coppia stile "americani di provincia" presso la quale Samantha va a lavorare: sempliciotti, ingenui e sopra le righe, tanto da credere che la loro nuova meravigliosa governante ha studiato alla "Scuola Cordon Bleu"!
Comunque, anche con questo romanzo siamo alle solite: secondo voi la nostra cara fanciulla avrebbe rinunciato alla carica di socio anziano dello studio e ad una sfavillante carriera se non fosse stato per il bel giardiniere? Voleva essere un libro di denuncia dei sacrifici ai quali una donna è costretta in nome della carriera e dove una donna si riappropria della sua vita, del suo tempo e della sua giovinezza, e invece l'autrice mi scade nel romanzetto da Lyala, dove si rinuncia a tutto pur di ì seguire il bel tenebroso... peccato, la Kinsella poteva fare di meglio.
Vabbè, lo consiglio come lettura da ombrellone: le ragazze sogneranno un po' e i maschietti rideranno oltre che delle disavventure della protagonista, anche degli stereotipi maschili...!

I segreti di Londra di C. Augias

"I segreti di Londra" di Corrado Augias, Edizioni Mondadori.
Il libro mi è piaciuto moltissimo, non solo perché si parla di una delle mie città preferite, ma anche, e soprattutto, perché il libro è scritto proprio bene. Inutile dire che Augias si esprime in un italiano perfetto: il suo stile è giornalistico, semplice, incisivo e colto. Dalle righe traspare un uomo di cultura e appassionato: si sente che ci mette il cuore nelle descrizioni delle vicende legate alla città, si capisce che parla di una città che ha vissuto e conosciuto profondamente e non solo studiato sui libri.
Il libro è organizzato in questo modo: ogni capitolo è dedicato ad un monumento di Londra, ad esempio, la statua di Horatio Nelson in Trafalgar Square, il Globe, teatro di Shakespeare, le bellissime case del quartiere letterario di Bloomsbury, la torre di Londra, il Tamigi e molti altri ancora. Partendo dal monumento, Augias ci accompagna per le strade di Londra, svelando storie significative, sconosciute e a volte misteriose che si nascondono dietro le vie, i quartieri e i monumenti. Ogni strada diventa lo spunto per un racconto: la Torre di Londra ci porta al tempo di Enrico VIII e Anna Bolena, il Globe ai bei tempi del teatro di Shakespeare, Trafalgar Square alle gloriose imprese di Nelson, il quartiere di Bloomsbury al circolo letterario Bloomsbury e a Virginia Woolf, Baker Street a Sherlock Holmes, Abbey Road ai Beatles e i magazzini Harrods alla tragica favola di Lady Diana.
Nelle pagine del libro l’autore spazia dall’epoca elisabettiana, all’epoca vittoriana, dalla Seconda guerra mondiale, alla cronaca dei giorni nostri, passando per i favolosi anni Sessanta.
Ci sarebbe molto da dire su questo libro, ogni capitolo è affascinante e bisognerebbe parlarne approfonditamente, ma per non dilungarmi troppo, parlerò solo delle storie che mi hanno tenuta con il naso incollato alla pagina.
Le storie che mi hanno appassionato di più sono quelle di Sherlock Holmes, Jack lo Squartatore, Anna Bolena e naturalmente la lunga dissertazione sul teatro elisabettiano. Questi capitoli li ho letti tutti di un fiato, senza perdere una singola parola, una singola virgola del racconto.
Leggendo il capitolo su Sherlock Holmes, “Elementare, Watson!”, ho scoperto cose interessanti. Prima fra tutte, pare che il mitico Sherlock non abbia mai pronunciato la fatidica frase del titolo. In secondo luogo, questo personaggio di pura invenzione ha una vera e propria casa, al numero 221b di Baker Street, di fronte ad un angolo di Regent’s Park. Mi sa che sarà uno dei primi luoghi che andrò a visitare quando tornerò a Londra; sì perché la casa di Sherlock è una casa-museo: all’interno accoglie i visitatori una giovane hostess, vestita alla maniera vittoriana, come la governante di Holmes. Il capitolo racconta della figura di Sherlock Holmes, come traspare dalle righe dei romanzi di Doyle, dalle descrizioni del Dottor Watson e da come viene interpretato dalla critica: il grande detective viene descritto come un allucinato e intelligente cocainomane; Watson dice di lui: Letteratura zero. Filosofia zero. Astronomia zero. Politica: scarse. Botanica: variabili.[…] Chimica: profonde […] Suona bene il violino.
Poi Augias si sofferma sul metodo investigativo del detective, sempre visto dagli occhi del suo fedele aiutante. Questa seconda parte del capitolo è interessante, perché si mettono a confronto i romanzi di Doyle con altri autori dell’ epoca. Si scopre allora che un elemento che caratterizza i romanzi di questo autore è la totale mancanza di elementi orripilanti, come invece troviamo in Edgar Allan Poe. La cosa buffa che traspare dalla vicenda di Sherlock è che quest’ultimo è trattato dagli inglesi come un personaggio realmente esistito e la casa-museo ne è la testimonianza.
Bello e intrigante il capitolo dedicato ad Anna Bolena, giustiziata per volere del marito Enrico VIII. Qui Augias ci racconta approfonditamente il periodo di Enrico VIII e ci racconta come sono andate veramente le cose tra il re e sua moglie, cose che i libri di storia non raccontano per non dilungarsi troppo in vicende marginali, ma a mio avviso interessanti e fondamentali per comprendere la storia. Non dimentichiamoci che questi uomini e donne leggendari che hanno fatto la storia sono comunque stati esseri umani, non immuni dalle passioni che proviamo anche noi “moderni”. E allora scopriamo che re Enrico ha amato profondamente Anna, ma che dopo diversi anni, si è stufato di lei (perché non gli aveva dato figli maschi, quindi un erede) e l' ha rimpiazzata con un’altra più giovane e "sana"(Jane Seymour). La fa uccidere, decapitandola nel giardino della Torre di Londra, davanti ad una folla convinta del suo adulterio. La descrizione del momento che precede l’esecuzione è di uno sconvolgente realismo: non scherzo dicendo che sembra che Augias sia stato presente al fatto! Probabilmente questo perché non ci racconta della morte di una eroina d’altri tempi, distante secoli e secoli da noi; quella che va al patibolo è una donna innamorata con le sue paure e i suoi sogni infranti.
Come afferma lo stesso autore: Non ci sono più re e regine […]ma solo esseri umani squassati dalle loro passioni e interessi.
Il capitolo “Uno spettro nella notte” affronta la nascita del romanzo gotico, partendo da Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson e dalla figura (realmente esistita?) di Jack lo Squartatore. Viene descritta l’Inghilterra e la Londra ottocentesca, lo scenario nel quale è nato questo genere di letteratura. Il capitolo va letto tutto d’un fiato, perché è un crescendo di tensione, anche grazie a brani sinistri e lugubri riportati qua è là nella narrazione. Non mi sto ad addentrare oltre, ma vi posso assicurare che l’ultima parte affronta la figura del vampiro ed è da brivido!! Il fatto intrigante è che nella Londra di oggi si possono ancora ritrovare le atmosfere dei romanzi gotici; la Londra spettrale e sinistra che emerge dalle pagine degli scrittori gotici esiste ancora: basta andarla a cercare nelle strade dell’East Side. Pare che ci sia anche un tour che ti porta nei luoghi di azione di Jack lo Squartatore!
Tengo per ultimo il mio capitolo preferito, quello sul Globe e Shakespeare, intitolato “Uno specchio alla realtà”. Mi scuso sin da ora se mi dilungherò nel commento, ma il teatro elisabettiano è uno dei generi letterari che preferisco e Shakespeare rimane per me un mito vero e proprio.Inoltre, sono contenta di poter parlare di teatro, argomento che per chi non è avvezzo rimane abbastanza oscuro.
Partiamo dal titolo del capitolo, “Uno specchio alla realtà”, e cioè la funzione che il teatro svolge da secoli: il teatro è come uno specchio offerto agli spettatori nel quale si riflette la realtà.
La testimonianza più tangibile del teatro dell’epoca elisabettiana è il teatro detto “The Globe”, di forma circolare, sulla sponda meridionale del Tamigi, ricostruzione fedele all’originale di una decina di anni fa e voluta da un attore americano, Sam Wannamaker. Nel capitolo si parla di come veniva pensato e usufruito il teatro ai tempi di Elisabetta I e cioè nel XVII secolo. Il teatro ai tempi di Elisabetta era un veicolo di intrattenimento, di conoscenza e non solo per i ricchi: le platee elisabettiane erano formate, per lo più dal popolo; il teatro era lo spettacolo popolare per eccellenza (svolgeva la funzione che oggi ha la televisione).
Il pubblico era costituito da macellai, merciai, fornai, marinai, conciatori, muratori da tutte le categorie artigiane e operaie. Questo sì che è il modo giusto di concepire il teatro! Solo noi italiani abbiamo una visione del teatro elitario, che, ahimè, perdura ancora oggi! Ed è un male, perché il teatro non deve essere considerato un luogo dove si vanno a vedere noiosissime opere (tragedie o commedia che siano), solo perché fa “in”. Il teatro nasce principalmente come luogo delle emozioni. Il teatro, sin dall'antica Grecia, è considerato un luogo di svago, di divertimento e anche di riflessione sul mondo che ci circonda. E così dovrebbe essere ancora oggi.
La cosa che stupisce è che il pubblico elisabettiano non aveva bisogno di tanti apparati scenografici per immedesimarsi, per credere a quello che assisteva: come dice Augias su quelle tavole, con addosso degli stracci colorati, qualche pezzo di vetro, un po’ di stagnola, si mise in scena una delle più potenti e sottili rappresentazioni mai concepite dalla natura umana.
La capacità immaginativa del pubblico elisabettiano era portentosa. Ancora citando Augias: Escono tre attrici che fingono di chinarsi a raccogliere fiori e le tavole del palco si trasformano in un prato. Esce una mezza dozzina di comparse impugnando spade di legno […] il prato è diventato un campo di battaglia e quei sei figuranti sono una schiera di centinaia di uomini in procinto di battersi per vincere o morire.
Come si può pretendere da noi la stessa immaginazione, nell’era della realtà virtuale?
E gli autori che scrivevano per il teatro tenevano conto dei mezzi a disposizione per rappresentare l’opera. Un esempio per tutti: Shakespeare nel suo Enrico V esordisce in questo modo:
[…]
Può questa misera arena contenere i vasti
campi di Francia? E possiamo, questa O di legno,
inzepparla pur dei soli cimieri che atterrirono l’aria
d’Angicourt?
Oh, perdonate!, come una cifra sbilenca
può contenere in breve spazio un milione, permettete a noi
zeri di questa grande somma, di lavorare
sulla forza della vostra immaginazione
.
Forse era per loro più facile immedesimarsi perché gli autori mettevano sulla scena passioni umane di tutti i giorni, non cervellotiche e ambiziose commedie, comprensibili solo con una adeguata preparazione psico-letteraria! Si parlava sì di re e regine, ma questi venivano presentati non come personaggi del mito, ma come uomini soggetti alle emozioni ed ai sentimenti più comuni. Forse anche per questo era più facile immedesimarsi e immaginare. Shakespeare è stato un maestro in questo: a distanza di secoli, le sue opere sono ancora di una sconcertante attualità. E questo, forse perché ha parlato di uomini e di sentimenti, ci ha mostrato la natura umana così come è, e ce ne ha parlato in un linguaggio poetico, ma allo stesso tempo “semplice”, dal momento che si doveva rivolgere principalmente ad un uditorio poco o per niente colto. Augias, infatti, definisce Shakespeare come un sommo interprete dell’umanità e mai definizione è stata più calzante.

Neanche gli Dei di I. Asimov

"Neanche gli Dèi" di Isaac Asimov, edizioni Oscar Mondadori, titolo in originale The Gods Themselves.
Il ritrovamento, in un laboratorio, di una sostanza che secondo le nostre leggi fisiche non può esistere, porta un gruppo di scienziati a entrare in contatto con una razza misteriosa e molto evoluta che abita una realtà parallela alla nostra. Grazie alla collaborazione tra i due universi, i terrestri riescono ad impadronirsi di una fonte apparentemente inesauribile di energia. Ma chi sono questi esseri misteriosi? Se sono davvero degli Dèi, come mai iniziano ad arrivare enigmatici segnali di pericolo?
Il libro è diviso in tre capitoli: il primo ambientato sulla terra, il secondo nel mondo parallelo alieno e il terzo sulla luna. Apparentemente i tre capitoli non hanno alcun legame tra loro, ma solo alla fine il cerchio si chiude e si capisce il nesso.
Anche in questo romanzo troviamo forme extraterrestri del tutto particolari e originali. Queste ultime, infatti, sono delle essenze. In realtà è un po' difficile descriverle, perché Asimov non le descrive! Lascia molto spazio alla capacità immaginativa del lettore. Pare che questo sia il primo (e forse l'unico?) romanzo in cui l'autore si sia cimentato con la creazione di creature extraterrestri.
Ho trovato originale lo stile di vita, diciamo così, di queste creature: sono esseri parlanti, pensanti, che vivono e si comportano fondamentalmente secondo le nostre leggi; ma l'originalità sta nella concezione della famiglia aliena. Sì, perché i tre protagonisti alieni, una femmina e due maschi formano una triade, cioè una famiglia. O meglio: i due maschi formano una vera e propria coppia (sono proprio come marito e moglie) e la femmina serve per procreare. In effetti questa visione degli extraterrestri è un po' maschilista perchè le aliene femmine sono dipinte come un po' stupidotte e con l'unico scopo della procreazione. Ovviamente la nostra protagonista extraterrestre rappresenta la mosca bianca, l'eccezione alla regola: intelligente e con velleità di fare altro nella vita che non essere usata solo a scopo riproduttivo.
Ho trovato interessante l'ultimo capitolo, ambientato sulla luna, in una colonia di lunariti (ex terrestri che hanno colonizzato il pianeta). Qui Asimov descrive la vita di questo nuovo popolo e la sempre più crescente difficoltà dei terrestri di interagire con i lunariti, perché questi ultimi sono sì in origine terrestri, ma si sono evoluti in modo indipendente, dovendosi adattare alle nuove condizioni del pianeta. Quindi le due razze, ormai diverse per costituzione, stile di vita e pensiero, si stanno ormai allontanando, pur avendo un'origine comune.
Questo mi ha fatto pensare alle colonizzazioni di continenti sconosciuti nel corso della storia, in particolare a quella dell'America. Anche il primo popolo americano (tutti europei emigrati) si sentiva diverso dalla vecchia Europa e cercava una propria indipendenza. Questa voglia di indipendenza e di differenziazione c'è stato con solo un oceano di distanza, figuriamoci con migliaia di chilometri!
Il romanzo è molto interessante, perché la fantascienza viene utilizzata ancora una volta dall'autore come mezzo di ricerca filosofica, introspettiva e analitica. Asimov ha trasformato l'esperienza dell'uomo in viaggio interiore e la fantascienza in un mezzo per cogliere l'essenza profonda delle cose.

venerdì 20 giugno 2008

La pietra del vecchio pescatore di P. O'Shea

"La pietra del vecchio pescatore" di Pat O'Shea. TEA Edizioni. Titolo in originale: The Hounds of the Morrigan
Pidge, un ragazzino irlandese di Galway, tornando a casa in bicicletta, si ferma, incuriosito, in una libreria e acquista un vecchio libro malconcio e da lì comincia una splendida avventura nella verde e magica Irlanda. Lui e la sorellina, Brigit, sono incaricati da un vecchio pescatore (un druido, un mago) di trovare una pietra impregnata di una goccia di sangue della strega Morrigan, sconfitta anni orsono da un cavaliere, ma ancora viva e in procinto di recuperare tutti suoi poteri malvagi, proprio grazie al sangue sulla pietra. I due ragazzi sono inseguiti da una muta di cani, i segugi, messi sulle loro tracce dalla Morrigan, la quale, naturalmente, vuole rientrare in possesso di tutti i suoi poteri magici. Sul loro cammino incontreranno diversi ostacoli, animali parlanti, streghe, spiriti maligni, folletti benefici e giganti.
Il libro mi è piaciuto, ma non mi ha entusiasmato. Probabilmente ho cominciato a leggerlo (sbagliando) pensando di trovarmi davanti una specie di Harry Potter. A parte i richiami ad un mondo magico, questo libro si discosta abbastanza dallo stile della Rowling. Lo stile, pero', mi è sembrato troppo per bambini. Non so se questo sia dovuto ad una scelta del traduttore o ad una traduzione datata. Bisognerebbe leggerlo in inglese per capire. Molti termini sono intraducibili, quindi capisco che ci siano state un po' di difficoltà a trovare la corrispondente espressione in italiano. Ma non capisco il taglio infantile che si è voluto dare al romanzo. Tanto più che, apparentemente (come molte favole) il libro è indirizzato soltanto ai bambini.
Sempre riferita a questo discorso, mi sembra la traduzione del titolo: to hound significa perseguitare, mentre hounds sono i segugi. Quindi il titolo in originale suonerebbe più o meno così: "Le persecuzioni della Morrigan" o "I segugi della Morrigan": decisamente più incisivo del titolo italiano. Probabilmente si è deciso per questa traduzione perché la Morrigan fa parte del patrimonio leggendario irlandese, che gli irlandesi conoscono bene, mentre a noi italiani non dice nulla: la Morrigan chi era costei? Infatti, in fondo al libro c'è un interessantissimo e utile "glossario di parole gaeliche", con tanto di esplicazione dei nomi e relativa pronuncia.
La Morrigan, la terza protagonista del romanzo oltre ai due fratellini, è una strega (La Grande Regina) una e trina. Il libro si apre proprio sull'arrivo delle tre streghe a Galway. Questo inizio mi ha ricordato molto l'incipit di "Macbeth", con l'entrata delle tre streghe. Ad accompagnarle, pioggia e cattivo tempo, proprio come le streghe shakespeariane, annunciate da tuoni e lampi, messaggeri di sventura e di sconvolgimenti della natura.
Il romanzo è costellato, come dicevo prima, di molti altri personaggi, umani e soprattutto animali parlanti.
I personaggi di contorno più divertenti sono il ranocchio e i piccoli insetti che formano un efficacissimo ed efficientissimo esercito, guidato da un simpatico generale stile Napoleone. Ovviamente gli insettini parlano un "francese maccaronico", molto divertente. Devo dire che l'imitazione dell'accento francese rende bene anche per iscritto.
Il ranocchio, invece, è un po' svampito e ne combina di tutti i colori. E' strano che il personaggio della rana sia positivo, perché nelle leggende legate alla stregoneria è considerato uno spirito maligno, a favore delle streghe.
Molto bello anche il personaggio dell'alce, un po' malinconico, che salva i due bambini in un momento particolarmente difficile e quello della volpe saggia, che li accompagna per tutta la seconda metà della loro avventura. La volpe, che nel nostro immaginario colletivo fiabesco è sinonimo di furbizia e scaltrezza un po' subdola (vedi l'accoppiata gatto-volpe in Pinocchio), qui è la rappresentazione della saggezza, è quasi una maestra di vita per i due ragazzini e dispensa insegnamenti profondi, oltreché dimostrare un invidiabile coraggio in diverse e difficili situazioni.
E' interessante notare come quasi tutti gli animali che i due fratellini incontrano sul loro cammino siano positivi e "buoni"; mentre la maggior parte degli uomini che incontrano sono "cattivi". C'è da dire che qui il bene e il male sono abbastanza distinti, non c'è confusione o coesistenza in un singolo personaggio di entrambi i lati.
A tratti personaggi e situazioni mi hanno ricordato "Labyrinth", "Alice nel paese delle meraviglie", "La storia infinita" e "Il mago di Oz". Senza pensare, poi, al mitico "Signore degli anelli": anche qui abbiamo il viaggio, che è anche viaggio di crescita personale, verso una meta più o meno conosciuta per salvare il mondo dal male. Viaggio che è, ovviamente, anche metafora della vita stessa. I bambini tendono ad un meta, come tutti noi, ma per ognuno è diverso il modo di raggiungerla, il percorso che ci porta ad essa.
Mi è sembrato bello e positivo il messaggio che la scrittrice vuole lanciare: il mondo fantastico di cui si parla nel libro non è un posto chissà dove. Il fantastico e la magia ci circondano, basta solo trovarla in noi, negli altri e in tutto quello che è intorno a noi. Basta leggere la realtà con uno sguardo diverso. Il libro magico non fa entrare i due bambini in un altro mondo: acuisce soltanto la loro vista; fa vedere loro cose che prima non avevano mai notato; fa vedere loro la realtà non più in modo superficiale. Insomma, la O'Shea ci dice che è bello mettere un po' di fantasia nella vita di tutti i giorni, per sdrammatizzare la dura realtà e che i veri cattivi, gli orchi delle fiabe, sono coloro che sono incapaci di vedere la "magia" nella propria vita e di viverla con un pizzico di fantasia.
Infine, ho trovato azzeccata l'dea di disegnare, invece che di descrivere, i diversi cartelli che indicano il percorso da seguire ai ragazzi, oppure frasi di avvertimento, insegne di negozi... Secondo me questa idea risulta efficace perchè fa entrare il lettore un po' di più nella storia, è come vedere con gli occhi dei protagonisti.

Harry Potter e l'Ordine della Fenice di J.K. Rowling

"Harry Potter e l'Ordine della Fenice"di J.K. Rowling, Salani Editore. Titolo in originale Harry Potter and the Order of the Phoenix
Cominciamo col dire due parole sulla trama, per fare il punto della situazione. Lord Voldemort è tornato ed è in pieno possesso dei suoi poteri (adesso ha riacquistato anche il suo corpo, mentre prima era solo un' essenza, un fantasma che si nascondeva nei corpi altrui). Harry Potter lo ritroviamo al quinto anno di Hogwarts, a 15 anni, in piena crisi adolescenziale. Lo accompagnano spesso rabbia e ansia di ribellione, tipiche dell'età. La sua preoccupazione maggiore è il ritorno dell'Oscuro Signore. Riuscirà a fronteggiarlo ancora una volta e a sconfiggerlo? Niente paura: ad aiutarlo ea proteggerlo c'è l'Ordine della Fenice, un gruppo di valenti maghi, capitanati da Silente.
Il romanzo mi ha appassionato molto. Non sono d'accordo con chi sostiene che sia noioso, poco fantasioso o poco avventuroso. E'soltanto diverso dagli altri. Ma è giusto e azzeccato da parte dell'autrice: Harry Potter è una saga, che si evolve con l'evolversi del personaggio. Sono passati 5 anni dall'ingresso ad Hogwarts del protagonista, che ormai non è più un bambino.
Ho trovato questo libro più introspettivo dei precedenti; i personaggi sono approfonditi psicologicamente, quindi più completi; si scopre molto di più sul loro passato e si chiariscono i perché di tanti comportamenti e situazioni. I personaggi non sono più bianchi o neri, solo buoni o solo cattivi: cominciano ad affiorare "sfumature di grigio".
Harry non è più solo il bambino maltrattato che riconoscevamo all'inizio della sua storia. Adesso è un adolescente che piano piano prende coscienza di sé e del mondo che lo circonda, con tutta la sua complessità. Quindi anche lo stile del libro, per ritornare alle considerazioni iniziali, deve, a mio avviso, modificarsi di pari passo.
La Rowling dà voce, quindi, al complesso mondo degli adolescenti, anche per permettere loro di identificarsi meglio con il protagonista.
Interessante è la creazione del personaggio della professoressa Humbridge. Come ogni anno alla scuola c'è un nuovo professore per la Difesa Contro le Arti Oscure e quest'anno compare questo buffo, ma perfido personaggio che fa parte del Ministero della Magia e che assume di punto in bianco, circa a metà della storia, la carica di Inquisitore Supremo di Hogwarts, che si arroga il diritto di decidere cosa è bene e cosa è male, che controlla l'operato degli insegnanti e che ha la facoltà di licenziarli. E' l'incarnazione, insomma, della stupidità di chi detiene il potere per combattere il talento, la fantasia e la diversità. Ovviamente di personaggi del genere ne è piena la storia di ieri e di oggi, ma è stato divertente vederlo "applicato" nel mondo magico della Rowling.
Una breve considerazione sullo stile della scrittrice. Secondo me questo libro, ma anche il precedente ("Harry Potter e il calice di fuoco"), a dire la verità, mi sembrano scritti con uno stile che definirei cinematografico. Mi spiego: sembra che la Rowling scriva sapendo di stare scrivendo soprattutto per il cinema. Personaggi e situazioni sembrano pensati in funzione della trasposizione cinematografica.
Non vi dico niente sul finale, ma vi anticipo che il combattimento delle ultime pagine è molto coinvolgente e si legge tutto d'un fiato.
Comunque il libro è bellissimo. Devo dirlo, a costo di sembrare sentimentale e un po' retorica, finirlo è stato come lasciare un luogo caro, come tornare al numero 4 di Privet Drive!!

L'Assassino della Torre di Londra di J.B. Livingstone

"Lassassino della Torre di Londra" di J.B. Livingstone, Edizioni TEADUE. Titolo in originale L'assassin de la Tour de Londes

Come si evince dal titolo, si tratta di un romanzo giallo, ambientato in Inghilterra, a Londra. Il romanzo si apre sulla cerimonia di insediamento del nuovo Governatore della Torre di Londra, Lord Henry Fallowfield. L'atmosfera solenne viene interrotta e brutalmente sconvolta quando, da una merlatura della Torre, un vecchio Yeoman mostra la testa mozzata di Lady Ann Fallowfield.
A risolvere il caso entrano in scena i due investigatori protagonisti dei romanzi di Livingstone: Higgins e Scott Marlowe. Il primo è un investigatore ormai in pensione, ma che viene sempre rispolverato per districare i casi più insoliti; il secondo è sovrintendente di Scotland Yard, che non muove mai un passo senza il suo modello, l'ispettore Higgins, appunto.
I due protagonisti sembrano un po' gia visti: a partire dai nomi, ma anche andando a guardare le caratteristiche fisiche e caratteriali dei personaggi. Higgins è il classico investigatore inglese, di una certa età , scapolo, che vive in campagna, in compagnia del suo siamese e della domestica, amante dei fiori, di Mozart e del silenzio. Vi dice qualcosa Poirot di Agatha Christie o Nero Wolfe di Rex Stout? L'unica nota simpatica e originale del personaggio è che è un inglese che odia il tè (lo versa sempre nel vaso di qualche pianta): alla fatidica ora delle 17,00, si inventa sempre una scusa diversa per evitare l'orribile brodaglia!
Quanto a Scott Marlowe, beh, il nome non vi sembra un po' banalotto è già visto per un investigatore inglese?
Non so se queste "coincidenze" siano un omaggio dell'autore ai più grandi scrittori della letteratura gialla o semplici scopiazzature!
Il romanzo è comunque gradevole da leggere; è scritto bene, in modo semplice, ma efficace: l'autore riesce a creare sempre una suspance continua e in crescendo, che ti invoglia a leggere sempre più avanti (Agatha insegna...).
Devo dire che la cosa che mi piace molto di Livingstone è la sua abilità nel descrivere le atmosfere tipicamente inglesi: le brume, la nebbia che si alza dal Tamigi, le giornate di pioggia londinesi; sembra proprio di stare lì con i personaggi; la descrizione ti avvolge, è molto suggestiva. Certo, bisogna un po' amare questo tipo di clima e di atmosfera!
Per quanto riguarda lo sciglimento finale con la scoperta dell'assassino, l'autore qui copia proprio la Christie: l'investigatore riunisce tutti i sospetti in una stanza e comincia ad enunciare il possibile e probabile svolgimento della dinamica dell'omicidio. Vengono esclusi ad uno ad uno i possibili sospetti, fino alla rivelazione del colpevole. L'assassino dei libri di Livingstone non è che sia sempre una rivelazione! Diciamo che io non sempre l' ho azzeccato, leggendo i suoi gialli, ma alcune volte è proprio palese!!! Con Agatha questo non succede!! Anche la dinamica dell'assassinio stesso non è poi così complicata: basta tenere conto di qualche indizio e il gioco è fatto!
Infine, un 10+ alle copertine: molto belle e suggestive. Sono sempre belle foto di Londra o dell'Inghilterra. Ebbene sì, confesso una mia piccola debolezza: le copertine dei libri mi attirano molto, ci casco in pieno. Se un libro, in particolare un giallo, ha una copertina che mi attrae (e anche la trama) lo compro su 2 piedi!!I direttori marketing della TEA con me fanno un buon lavoro, mi sa che rientro proprio nel loro campione standard che si fa abbindolare dalle copertine!!

Uno di Noi di M.M. Smith

“Uno di noi” di Michael Marshall Smith, Edizioni Garzanti – Elefanti Thriller. Titolo in originale: One of Us.
Siamo in un futuro non molto lontano, a Los Angeles, nel 2017. Hap Thompson, il protagonista, lavora per la REMtemp, una ditta che si occupa dello “smistamento dei sogni”: Hap viene pagato per sognare gli incubi che la gente non vuole fare. E’ una attività ai limiti della legge. Un giorno il suo capo gli propone un nuovo incarico, decisamente illegale, lo “smistamento dei ricordi”: il nostro protagonista dovrà immagazzinare temporaneamente i ricordi che scompariranno dalla mente del loro padrone. La faccenda si complica quando una donna, Laura, vorrà liberarsi del ricordo di un misterioso delitto. Una volta scaricata la memoria del fatto nella mente di Hap, la donna scompare. Hap dovrà ritrovarla per restituirle il ricordo, altrimenti verrà incriminato lui dell’omicidio e sulle sue tracce si è già mossa la polizia e alcuni uomini misteriosi.
La prima impressione che ho avuto leggendo questo libro è che la fantascienza di oggi è un po’ cambiata dai tempi di Asimov; si è, in un certo senso, “modernizzata”. Questi “scienziati della penna” hanno dovuto necessariamente cambiare il modo di vedere il futuro, dal momento che il presente si è evoluto, con nuove tecnologie, rispetto agli anni Settanta e Ottanta. Il futuro dei Robot e degli alieni, di “Guerre Stellari” e di “Alien” ha lasciato il posto ad un futuro più realistico, sempre allucinante, ma verosimile.
Il romanzo mi è piaciuto; l’autore scrive in modo scorrevole e incalzante. All’inizio ho fatto un po’ di fatica ad entrare nel racconto, perché il protagonista sogna gli incubi di altri e ha il ricordo di esperienze di altri che si intrecciano con il presente della narrazione, ma una volta abituati allo stile del romanzo, la lettura è diventata interessante e intrigante.
Il romanzo è originale e tocca spunti di riflessione molto importanti: il lavoro del protagonista lo porta a conoscere la parte più intima delle persone, e cioè le loro paure, i loro sogni e speranze, le loro sensazioni più riposte; insomma, entra nella loro vita. Io trovo che questo lato del romanzo sia abbastanza inquietante, perché i sogni, gli incubi, le sensazioni che proviamo, i ricordi sono qualcosa di molto personale, intimo e radicato nel nostro animo più profondo e, soprattutto, fanno parte della nostra esperienza di vita, sono parte di quello che siamo. Sono le esperienze sia positive che negative che ci hanno formato; sarebbe veramente triste e preoccupante se in un prossimo futuro potessimo sbarazzarci dei ricordi brutti e tenere solo quelli piacevoli per vivere una vita perfetta. Oltre che triste e preoccupante sarebbe tremendamente noioso!
Ho trovato molto belle alcune riflessioni del protagonista sulla vita, veramente poetiche e profonde. Mi sono stupita di trovarle in un romanzo di fantascienza.
Originale la visione di Internet nel futuro: è una realtà virtuale dove gli indirizzi e-mail sono vere e proprie case con giardino e l’antivirus si materializza in un bel cane da guardia. Divertente, invece, la versione degli elettrodomestici parlanti e dotati di vita propria. Secondo il futuro di Smith, non ci sono robot dalle forme strane che aiutano in casa a fare le faccende domestiche (vedi Runaway), ma ci sono lavatrici, frigoriferi, forni che parlano, camminano, pensano.
Lo stile del romanzo è molto crudo e il linguaggio realistico, a volte fin troppo. Capisco che le parolacce siano funzionali alla narrazione per caratterizzare meglio il personaggio e la situazione, ma a volte stonavano davvero, erano un po’ di troppo.
Il protagonista è simpatico, un tipo borderline, vero. Il romanzo è pieno di echi di Blade Runner nelle atmosfere cupe e di Guerre Stellari, soprattutto nelle scene corali dei bar. Ogni volta che il protagonista andava in un locale, mi rivedevo la scena del primo Star Wars, quando Obi Wan e Luke Skywalker incontrano Han Solo in un bar fetido!! Mi sa che questa scena è entrata nell’immaginario collettivo, ormai è un cult!
Come stile, lo ho trovato molto simile a Philip K. Dick. Ammetto di non avere letto niente di Dick, ma ho visto il film “Minority Report” e come atmosfere e visione del futuro, mi è sembrato abbastanza in linea.
Consiglio di leggerlo a chi piace la fantascienza, se non altro perché l’argomento è diverso e interessante.

giovedì 19 giugno 2008

Una vita diversa di C. Dunne

"Una vita diversa” di Catherine Dunne, Edizioni TEA. Titolo in originale Another Kind of Life.

Il romanzo è ambientato nell’Irlanda di fine Ottocento. L’isola è percorsa da tensioni sociali che annunciano la voglia di indipendenza dal Regno Unito. “Una vita diversa” narra la storia di Hanna, May e Eleanor, tre sorelle di una famiglia agiata di Dublino, colpita da un improvviso rovescio di fortuna, e quella di Mary e Cecilia, due ragazze di Belfast, appartenenti alla classe operaia, avviate sin da giovanissime al lavoro della filanda. La Dunne segue le vicende delle sue eroine lungo i 30 anni cruciali della loro vita e della storia irlandese.
Il romanzo viene “venduto” dalla critica come la storia di cinque donne che vogliono affrancarsi dagli esempi familiari e da una destino già tracciato dalla famiglia e dalle convenzioni sociali. L’insoddisfazione di queste donne e la consapevolezza di nuove possibilità dovrebbe portare le eroine del romanzo verso una vita diversa. Mi spiegate dove?
Qui non si riscatta proprio nessuno. Tanto per cominciare, una delle due sorelle povere di Belfast muore all’inizio del romanzo, in seguito ad un violento pestaggio. Due delle tre sorelle ricche si sposano con un uomo conosciuto cinque minuti prima della cerimonia e imposto dalla famiglia.
Il riscatto, se così si può chiamare, si intravede leggermente nella figura del personaggio di Mary, una delle due sorelle povere di Belfast, che decide di non sottostare più alle dure condizioni di vita e di lavoro della fabbrica e si impiega come cameriera e governante presso una ricca famiglia. Forse l’unica che veramente insegue una vita diversa realizzando i suoi sogni di ragazza, è la terza delle sorelle di Dublino, Eleanor, che fin da piccola sogna di fare l’infermiera.
Insomma, secondo me il romanzo non lascia un messaggio positivo di riscatto. Le ragazze, soprattutto le tre di Dublino, hanno sì dei sogni nel cassetto, sogni di riscatto e di una vita diversa, ma non si battono per ottenerla, non prendono neanche in considerazione l'idea di opporsi alla famiglia per realizzarsi come donne e come esseri umani.
Devo dire che questo romanzo mi ha un po’ deluso. Non mi è piaciuto, soprattutto per la trama. La storia delle eroine del libro appassiona fino ad un certo punto. Comunque la lettura è scorrevole e il libro si lascia leggere bene.
Lo stile della scrittrice è chiaro, realistico, a volte anche molto crudo. Ho trovato singolare la narrazione di una stessa situazione da più punti di vista. Ogni capitolo è dedicato ad una delle ragazze. Si alternano due voci narranti: quella della autrice, che descrive la situazione dal di fuori, come narratrice e il punto di vista di Eleanor, che invece descrive le situazioni in prima persona, sotto forma di diario. Questo continuo cambio di punto di vista è, a mio avviso originale, soprattutto perché l’autrice deve fare uno sforzo per descrivere quello che accade da diverse angolazioni, mettendosi nei panni delle diverse protagoniste. E' un modo diverso per approfondire la psicologia del personaggio, presentandocelo in un certo senso "in soggettiva": sono gli stessi personaggi che descrivono la realtà, senza più la mediazione dell'autore.
Le tensioni politiche e religiose dell’Irlanda del tempo sono affrontate solo nei capitoli iniziali, mentre per tutto il resto del libro rimangono molto sullo sfondo, in sordina.
Ho letto questo libro per diversi motivi. In primo luogo perché ero un po’ incuriosita dalla autrice: pare che la Dunne sia un nuovo fenomeno letterario; un po’ dalla copertina: ci risiamo, ci casco sempre…(!) e dalla ambientazione irlandese (la mia mania del momento).
Mi è sembrato di leggere una Jane Austen o una Virginia Woolf moderna. Sarà forse l’ambientazione tipicamente inglese? Comunque condivido le critiche positive sulla grande capacità di scrittura della autrice: di lei hanno detto che è “una grande maestra nell’analisi dei sentimenti. Senza sentimentalismi.” Sono d’accordo. E sono d’accordo con chi dice che “la Dunne si è distinta per la sensibilità nell’indagare il mondo interiore dei suoi personaggi e l’originalità dello sguardo sulla condizione femminile”. Effettivamente la sua grande capacità è proprio quella di descrivere in poche parole stati d'animo e sentimenti difficili da esprimere.
Consiglio la lettura a coloro che sono abbastanza su di morale, perché il romanzo lascia un po’ di malinconia.

L'enigma del gallo nero di C. J. Sansom

"L'enigma del gallo nero" di C.J. Sansom, Edizione Super Tascabili Sperling. Titolo in originale Dissolution.

La trama: siamo in Inghilterra, nel 1537, nel momento in cui infuria la lotta tra i sostenitori del cattolicesimo e i riformisti, decisi ad imporre la nuova Chiesa protestante sotto l'egida di re Enrico VIII. In questo clima di paura, un rappresentante del sovrano viene mandato alla abbazia benedettina di Scarnsea, nel Sussex, per persuadere i monaci a lasciare l'ordine e poi confiscarne i beni. Pochi giorni dopo il messo del sovrano viene trovato decapitato nelle cucine e sull'altare qualcuno ha messo la carcassa insanguinata di un gallo nero. Un fidato avvocato riformista, Matthew Shardlake, il nostro protagonista, raggiunge il monastero e comincia ad indagare.
Cominciamo con il dire due paroline sul titolo. In italiano fa un effettone intitolare un libro "L'enigma del gallo nero", al posto di "Dissoluzione" (come vorrebbe la versione originale). Come al solito, la traduzione italiana non c'entra niente! Infatti il libro ruota attorno alla dissoluzione dei monasteri inglesi perpetrata dal 1536 al 1540 e guidata da Thomas Cromwell.
Ho trovato il romanzo molto interessante da un punto di vista storico. I fatti narrati, come ho detto prima, si svolgono in un delicato momento della storia religiosa d'Inghilterra: il passaggio alla chiesa riformista di re Enrico VIII. Questo clima fa da sfondo al libro ed è l'unico tratto a renderlo interessante. Sì, perché la storia in sè è già vista e nota. Se avete letto "Il nome della rosa", avete già letto anche questo libro! Il protagonista ricorda molto Sean Connery, ma in brutto: il nostro investigatore è infatti gobbo. Mentre il suo aiutante, Mark, è la fotocopia di Adso: bello e non immune al fascino femminile.
Le indagini di mastro Shardlake perdono un po' di interesse. Devo essere sincera: non mi interessava più di tanto scoprire chi fosse l'assassino, quanto leggere delle vicende storiche: interessantissimo, a mio avviso, l'incontro tra il protagonista e Lord Cromwell, dove quest'ultimo confessa che l'accusa di adulterio ad Anna Bolena, la moglie del re, era tutta una montatura, escogitata per favorire Enrico VIII che si era stancato di lei.
Molto ben narrate e documentate le condizioni di vita del popolino e dei monaci dell'epoca. Finalmente un romanzo accurato nei dettagli.
Ritornando alla trama e alle indagini, vi posso dire che il finale è scontato (l'assassino non è poi tutto questo grande colpo di scena) e c'è anche il vissero felici e contenti. La fine del libro mi ha un po' deluso.
Il romanzo si lascia leggere abbastanza bene, anche se, secondo me, non crea quella gusta suspance da romanzo giallo.

Io uccido di G. Faletti

"Io uccido" di Giorgio Faletti, edizioni I supernani, Baldini, Castoldi, Dalai editore.

La trama: un Dj di Radio Montecarlo riceve, durante la sua trasmissione notturna, una telefonata: uno sconosciuto rivela di essere un assassino. L'episodio viene archiviato come uno scherzo di cattivo gusto. Il giorno dopo un pilota di Formula Uno e la sua ragazza vengono trovati orrendamente mutilati. Accanto a loro, una scritta di sangue, Io uccido. Da questo momento ha inizio una serie di delitti, preceduti da una telefonata in radio dell'assassino che lascia un indizio musicale sulla prossima vittima. Sta alla efficientissima polizia di Montecarlo e ad un poliziotto americano in trasferta sbrogliare il bandolo della matassa, capire gli indizi lasciati dal pazzo maniaco e prenderlo prima che sia troppo tardi.
Il romanzo è molto, molto, molto americano. A partire dal personaggio principale: un poliziotto, americano (ma perché sono sempre loro che arrivano e risolvono tutto?...), in trasferta a Montecarlo per riprendersi dal suicidio della moglie. Già che è lì, aiuta il suo amico-collega francese nelle indagini e, già che è lì, gli risolve il complicatissimo caso e, già che è lì, si rifà anche una nuova vita con una dolce fanciulla, americana... insomma: veni, vidi, vici ...
Questo libro mi ha lasciato un po' perplessa: mi è piaciuto, ma non abbastanza da dire che Faletti sia uno dei più grandi scrittori contemporanei italiani. Non so quanto tempo ci abbia messo a scriverlo, ma la cosa che mi fa riflettere è che il libro è scritto molto bene, è accurato, fin troppo, per essere un romanzo d'esordio. Credo proprio che dietro ci sia un lavoro di equipe, una redazione che ha creato o comunque riletto e corretto a tavolino un romanzo di successo.
Io credo che abbia fatto tutto questo scalpore e che sia stato tanto reclamizzato perché Faletti, italiano, ha scritto un libro americano. Effettivamente non c'è nessun scrittore italiano contemporaneo che si sia mai cimentato in un romanzo all'americana, con trame e ritmo degni di un Grisham, un Follett o una George. Se lo avesse pubblicato sotto uno pseudonimo inglese, non dico che sarebbe passato inosservato, ma quasi...o se lo avesse scritto una persona sconosciuta, uno scrittore davvero alle prime armi, avrebbe avuto dignità di pubblicazione?
Mah, forse Faletti è la risposta italiana a tutti giallisti americani contemporanei. O forse ha fatto tanto parlare di sé perché dimostra ancora una volta di essere una persona eclettica, capace di reinventarsi ogni volta?
Dopo tutti questi interrogativi sulla fama, per alcuni poco meritata, che ha ottenuto l'autore, vi dico che il libro è comunque avvincente: sono la bellezza di 679 pagine, ma scorre via velocemente. La trama è ben costruita, tiene bene il ritmo. Anche se in alcuni punti si dilunga in descrizioni e flash back, non mi sembra che tolga ritmo al romanzo, anzi, tutti i particolari in più servono al lettore per capire meglio i personaggi e per "vivere" le situazioni in modo più approfondito e per immedesimarsi maggiormente nella storia. Infatti i personaggi sono ben caratterizzati e le descrizioni di luoghi e situazioni accurate.
Ci sono un paio di punti che stridono, anche se tutto è giustificato dalla licenza poetica. In primo luogo è poco credibile che un assassino uccida a destra e a manca per le strade di Montecarlo, che, pare, essere uno dei pochi Stati al mondo con un sistema di videosroveglianza tra i più efficienti. In secondo luogo, la storia del centralino (non scendo in particolari, altrimenti svelerei troppo a chi voglia leggerlo) suona strana: anche un hacker da quattro soldi ci avrebbe messo un secondo a scoprire l'arcano.
Quello che mi ha dato un po' fastidio è che si scopre l'assassino circa a duecento pagine dalla fine. Sì, d'accordo, la suspance è mantenuta fino in fondo, perché viene descritto il rocambolesco tentativo, a lieto fine, di acciuffarlo. Mi ha fatto sorridere, alla fine, quando l'assassino, praticamente, si arrende ai poliziotti senza lottare, dicendo che è arrivato il momento di fermarsi con gli omicidi e di avere capito di essere stato sconfitto. Tutto qui? il pazzo maniaco si arrende così? che delusione!!!
Chiudo con un ritorno nostalgico a Vito Catozzo con una delle sue più esilaranti battute:
Perchè io so' Vito Catozzo, un vero macchio! Io tratto le donne come tratto i delinquenti! Ci ho mia moglie Derelitta che ha un rapporto peso - potenza 1:1 , 140 chili per 1 metro e 40... Pure la dieta mi va a fare, mondo cano: mi diventa 110 chili...Ci ho detto; "Derelitta! se volevo una indossatrice, la sposavo, maiala la mandria con tutti i mandriani...
Eh, sì, non c'è che dire, proprio il poliziotto macho del libro ;-)...

mercoledì 18 giugno 2008

La Nazionale Italiana e il Meraviglioso Mago di Oz

In questo clima di europei, anche se sono una tifosa sfegatata di rugby, devo necessariamente fare una breve incursione nel mondo del calcio.
Ieri sera ho seguito con rinnovato interesse la partitona Italia-Francia, un derby annunciato e che rischiava di essere l'ultima performance della nostra nazionale.
Che dire? che siamo stati catapultati nel meraviglioso mondo di Oz!
Non mancava di certo lo spaventapasseri Toni, in cerca di un cervello, per cercare almeno di intuire dove diavolo si trovasse la porta della squadra avversaria. Forse è per questo che viene sapientemente piazzato, appunto come uno spaventapasseri, in prossimità della linea della porta e non lo fanno muovere di un centimetro, per la paura che, se supera la metà campo avversaria, non capisca più dove si trovi...comunque questo giocatore, mi assicurano, sta crescendo di partita in partita e non vedremo più (forse) la sua reazione al gol mancato: quello spalancare gli occhioni da cerbiatto, quello scuotere la testa, come se una forza divina gli avesse impedito di fare centro, quel portare le mani al volto, nella sua migliore interpretazione de L'urlo di Munch...ci mancherà!
Il leone Ringhio Gattuso ha perso vigore e in campo non riesce a trovare il coraggio e non emerge. Gli altri compagni, i boscaioli di latta, devono ritrovare il cuore per fare una grande partita. E il Mago Donadoni? cosa dobbiamo pretendere da lui con questi elementi per le mani? fa quello che puo'!
Cassano mi sa che aveva sbagliato stadio: novello Vasco, incitava i tifosi a farsi sentire e alla fine della partita, l'ho visto, contento, ma un po' deluso per il fatto che non gli abbiano chiesto il bis.
E meno male che erano schierate in campo le streghe buone del Nord e del Sud nella persona di Buffon, De Rossi, Pirlo e Grosso che hanno dato un senso alla partita.
E l'arbitro? fantastico esempio di riflesso pavloviano: ad ogni fischio tirava fuori il cartellino giallo e ammoniva qualunque cosa aveva sotto tiro.
Abbiamo vinto, 2 a 0 e oggi tutti osannano i campioni del mondo, forse dimenticandosi che abbiamo giocato tutta la partita 11 contro 10.
Domenica ci aspetta la strega cattiva Dell'Ovest (la Spagna): chissà se pioverà, così l'avversaria si scioglierà come neve al sole. E speriamo che Dorothy non batta tre volte i tacchi delle scarpe d'argento prima che la nostra nazionale abbia percorso tutta la strada di mattoni gialli per arrivare alla città di Smeraldo...altrimenti, tutti a casa!

lunedì 16 giugno 2008

Solaris di S. Lem

"Solaris" di Stanislaw Lem, edizioni Oscar Mondadori, titolo originale Solaris

Il romanzo, di fantascienza, è ambientato in un lontano futuro, nel momento della massima espansione umana, grazie ai viaggi interstellari. Proprio in uno di questi viaggi, l'uomo si imbatte nel pianeta Solaris, un pianeta vivo, che rappresenta per l'uomo una sfida impossibile da vincere, perché impossibile da capire. Solaris è un oceano pensante, che assume continuamente una miriade di forme effimere e incomprensibili. Nell'orbita del pianeta ruota la stazione spaziale che ospita tre scienziati. Il romanzo si apre all'arrivo del protagonista, il dottor Kelvin, sulla stazione orbitante, inviato dalla Terra per capire cosa sta succedendo ai suoi colleghi, dal momento che uno dei tre scienziati è morto in circostanze misteriose. Kelvin non ci mette molto a capire che il pianeta c'entra qualcosa con tutte queste stranezze e assurdità, soprattutto perché incontra sua moglie, morta suicida più di dieci anni prima.
"Solaris" mi è piaciuto molto e mi ha offerto diversi spunti di riflessione. Infatti è un romanzo particolare, introspettivo, a volte quasi inquietante per le tematiche che affronta e di un attualità sconvolgente. Soltanto apparentemente è un romanzo di fantascienza: quest'ultima è un pretesto poetico e suggestivo per parlare di problematiche attuali e che ci riguardano tutti da vicino. Diciamo che la fantascienza costituisce la cornice del libro, che, in realtà, potrebbe essere considerato un saggio di filosofia, che tocca riflessioni inquietanti sulla natura, sulla condizione e il destino dell'uomo.
E' stato affascinante leggere come i tre scienziati, uomini razionali per definizione, non riescano a comprendere il mistero del pianeta. Non sono in grado di offrire una spiegazione razionale. Ma un approccio che si basa soltanto sulla ratio cartesiana non è detto che riesca a fornire una soluzione a tutto quello che ci troviamo di fronte. Soprattutto se quello che abbiamo davanti è qualcosa di "altro" da noi, dalla nostra esperienza. I nostri criteri antropocentrici e soluzioni di tipo religioso, infatti, sono inapplicabili a situazioni complesse e completamente estranee a noi. Il pianeta è inspiegabile, perché non si può spiegare con i nostri parametri una realtà altra, che segue altre leggi. E Solaris non può essere spiegato, perché è, appunto, una realtà altra. E allora cos'è Solaris? una forma di vita, sicuramente, probabilmente un extraterrestre. Sì, perché chi lo ha detto che gli ET debbano essere tutti antropomorfi, verdini e con le antennine??!
I tre protagonisti sono messi di fronte alle loro paure, alle loro speranze disattese. Solaris le crea per loro. Il pianeta legge nella parte più riposta dei tre e li mette di fronte, letteralmente, ai propri fantasmi e alle proprie paure. Ecco che allora Kelvin ritrova sua moglie e con lei tutti i propri sensi di colpa. Rivive sensazioni e pensieri che riteneva ormai superati, ma che in realtà erano soltanto sopiti.
Solaris è come uno specchio, dell'anima. Che altro sono, infatti, i fantasmi, le creazioni, i "politeri", gli ospiti, queste copie perfette dell'originale se non il riflesso dell'intimo animo dei tre uomini, del loro inconscio, delle loro paure e dei loro sogni? Quindi possiamo dire che si trovano davanti a se stessi.
Forse Lem ci vuole dire che l'uomo si avventura alla scoperta di nuovi mondi senza conoscere realmente e a fondo se stesso? O forse l'ansia di conoscenza dell'uomo nasconde la volontà, in realtà, di conoscere meglio se stesso?
La seconda questione sottesa, secondo me, è questa: se ci fosse fatto un grande dono, e cioè, se qualcuno ci desse la possibilità di tornare indietro per una seconda chance, come ci comporteremmo? Rifaremmo gli stessi errori?
Chiudo con una brevissima considerazione sullo stile narrativo dell'autore: chiaro e poetico allo stesso tempo. Le evoluzioni dell'oceano del pianeta sono musica in parole, molto suggestive. Il ritmo che le descrive è incalzante, ipnotico, bellissimo.

mercoledì 11 giugno 2008

La biblioteca dei miei sogni di J. Highmore

“La biblioteca dei miei sogni” di Julie Highmore, Salani Editore. Titolo in originale Pure Fiction.

Il romanzo, ambientato a Oxford, Inghilterra, ai giorni nostri,narra le vicende dei partecipanti ad un circolo di lettura. Il protagonista (uso questo termine, anche se non c’è un vero protagonista), Ed, casalingo con figlia a carico, decide di aderire al circolo di lettura promosso dalla biblioteca comunale. A lui si uniscono gli altri personaggi del romanzo: Kate, Donna, Brownen, Gideon, Bob e Zoe. Tutti hanno storie diverse, ma un’unica necessità, nutrire la mente. Il circolo di lettura prende forma in una piccola comunità e la lettura diventa l’occasione per confrontarsi con gli altri, crescere e cambiare la propria vita. Piano piano le vite dei personaggi si trasformano (in meglio), fino ad arrivare all’ormai scontato happy end. Ovviamente, invece di parlare dei libri, i personaggi parlano di sé stessi.
L’autrice intreccia le storie di uomini e donne lettori di libri e il circolo di lettura diventa una valida alternativa (forse più efficace e divertente) alla terapia di gruppo.
Il romanzo mi è piaciuto molto. Come dice la frase in copertina, è stato impossibile staccarsi; l’ho letto, infatti, in breve tempo. Non so dirvi cosa ha fatto sì che il mio naso rimanesse incollato alle pagine. In realtà la trattazione dei personaggi è abbastanza superficiale, non c’è poi tutto questo scavo psicologico e alcune storie sono scontate.
Quello che mi ha attirato, forse, è stato il modo di scrivere della autrice. Intrecciando le storie di ben sei personaggi e tutti protagonisti, bisognava adottare una tecnica narrativa che non risultasse noiosa. E la Highmore ha deciso di trattare le diverse storie, non tanto approfondendo la psicologia del personaggio, ma facendo dei flash sulla vita di ognuno. In ogni capitolo i diversi paragrafi sono dedicati ad ogni personaggio ed in essi si racconta un momento della loro vita.
Questa struttura è originale (diciamo per un romanzo moderno, perchè Ariosto nel suo “Orlando furioso” ce ne ha dato un valente saggio): saltando da una storia all’altra, non ci si annoia e viene voglia di andare a scoprire cosa succederà al proprio personaggio preferito nelle pagine successive.
Questo modo di raccontare mi ha ricordato anche la tecnica narrativa di Altman, regista di cinema, famoso per raccontare nei suoi film le storie di diversi personaggi (moltissimi, nel suo caso); storie che si intrecciano continuamente e che hanno un punto di partenza comune o un fatto che le accomuna e che le attraversa tutte:ad esempio in "America Oggi" e "Il Dottor T e le donne".
Non sto ad entrare nel merito di ogni singola storia. Posso dirvi che tutte le vicende si concludono bene e nel migliore dei modi. Ognuno sembra trovare un proprio equilibrio e una propria nicchia ecologica nella quale vivere il resto della propria (felice e ideale) vita.
In realtà, però, non c’è un vero e proprio finale: la Highmore ci mostra come sono cambiate in meglio le vite dei personaggi dall’inizio, ma lascia il prosieguo aperto, come se ci fossero dei puntini di sospensione.
Come al solito, le donne sole trovano l’uomo dei propri sogni e viceversa frequentando il circolo di lettura. Che fortuna! Uno non sa cosa fare per riempire il tempo e per socializzare, si iscrive ad un circolo di lettura e, magia! la sua vita si trasforma e trova tutto ciò che stava cercando!! Mah... Insomma, questo romanzo è un po’ una variazione sul tema delle varie Bridget Jones e simili.
Una cosa, però, mi sembra positiva del libro, è cioè il messaggio che emerge tra le righe. Per cercare di cambiare la propria vita bisogna entrare in comunicazione con gli altri, creare degli scambi con le persone, cercare di aprirsi e confrontarsi. Questo perché da ognuno si può imparare qualcosa e, grazie alle esperienze, si cambia e si cresce. Non ha senso chiudersi e allontanare le persone e il mondo per paura di soffrire o di rimanere scottati. Potrebbe anche nascere qualcosa di bello, come amicizia, amore, solidarietà, collaborazione, aiuto reciproco… Poi se ogni tanto si sbatte il muso, non importa, fa tutto parte del gioco e della vita; ci si rialza, magari più forti di prima e avendo imparato qualcosa di più: non erano forse gli ostacoli che facevano crescere e cambiare? Il messaggio è molto simile a quello lanciato da Nick Hornby in "About a boy": se si perde qualcosa è per guadagnare qualcos'altro, di meglio.

martedì 10 giugno 2008

Sogni di Robot di I. Asimov

“Sogni di robot” di Isaac Asimov, Net edizioni. Titolo in originale "Robot Dreams".

“Sogni di robot” è una raccolta di 21 racconti, scritti tra gli anni ’50 e ’70. Il titolo è quello del terzo racconto della antologia. La raccolta alterna storie di robot, di extraterrestri, di esperimenti scientifici, di nuove scoperte…
Il libro è illustrato da Ralph McQuarry, personaggio di spicco del cinema: ha partecipato alla realizzazione di film come “Guerre stellari” e “L’impero colpisce ancora”. Nel 1986 ha vinto l’Oscar per gli effetti speciali per “Cocoon”. Di lui Asimov dice: "i disegni di Ralph hanno reso il libro molto più bello, mettendo il lettore nella giusta disposizione visuale" . In effetti il disegno di copertina, un robot raggomitolato su un divano che dorme (sogna) esprime un senso di profonda umanità.
Il racconto che mi ha commosso di più è proprio “Sogni di robot”, dove la robopsicologa Susan Calvin interroga il robot LVX-1 sulla sua capacità del tutto unica di sognare. Il racconto contiene in embrione il tema centrale del film, tratto dall’omonimo racconto di Asimov, “I, Robot”. Addirittura il sogno di libertà del robot ci rimanda alla scena finale del film (non sto a spiegarlo, sarebbe troppo complicato, spero che abbiate visto il film!).
Che cosa affascinante pensare che un robot, una macchina, possa sognare, avere un proprio inconscio, pensieri propri e una propria coscienza. Mi ha emozionato molto la capacità di Asimov di saper rendere umana una macchina, dotandola della semplice, ma fondamentale, capacità di potere sognare. Fondamentale, perché il sogno esprime il nostro universo interiore, con desideri, speranze, paure, esprime, insomma, una coscienza. Solo l’uomo ha questa capacità; proprio questa capacità, e ciò che rappresenta, ci rende umani.
Anche in “I, robot” e ne “L’uomo bicentenario” Asimov affrontava lo stesso tema della volontà, da parte del robot, in un caso, di essere unico, nell’altro caso di diventare proprio un essere umano. Senza pensare, poi, a “A.I. Intelligenza artificiale” di Spielberg, su un’idea di Kubrik (ispirata alla grande da Pinocchio), dove il bambino- robot sogna di diventare un bambino vero, perché solo così può essere e sentirsi amato.
Mi sono chiesta: ma perché gli scrittori fanno desiderare ai loro robot di diventare umani? Sì, perché ogni essere umano è unico, irripetibile, non ce ne sono due uguali. Ma è proprio vero? E cioè che ogni essere umano è unico e irripetibile? O è solo un proiettare sulla macchina un desiderio dell’uomo stesso? Basti pensare che noi, oggi come oggi, tendiamo ad andare proprio nella direzione opposta, con questa ansia di globalizzazione e omologazione a degli standard!
Il tentativo di riscatto e di ribellione delle macchine create dall’uomo è stato affrontato spesso anche dai film di fantascienza. Non è che sarà una paura dell’uomo? Pensate se effettivamente la tecnologia creata dall’uomo gli si rivoltasse contro. Il film “Matrix” (più filosofico) e il film “Termonator” (più pratico) hanno affrontato approfonditamente e in un modo inquietante l’argomento: in un futuro non troppo lontano le macchine prenderanno il sopravvento e controlleranno la nostra vita! La cosa sconvolgente, pensando ad Asimov, è che lui queste cose le aveva già intuite quaranta anni fa. E i suoi racconti sono attualissimi, sembrano scritti ieri, forse per la sua capacità del tutto unica di coniugare invenzione letteraria e verità scientifica, caratteristiche che riescono a rendere i suoi libri verosimili e fantastici insieme, specchi di un futuro possibile.
Il racconto che mi ha emozionato di più è stato “Le acque di Saturno” (1952). Siamo in un futuro in cui l’uomo ha colonizzato tutti i pianeti del sistema solare e si narra l’avventura di un gruppo di spazzini marziani che tentano di rubare l’acqua da un anello di saturno, poiché il pianeta terra non è più disposto a fornire acqua alla colonia marziana.
Quello che mi ha affascinato di questo racconto è che Asimov ha descritto una passeggiata nello spazio che doveva aspettare ancora 15 anni per essere realizzata. Interessante è la descrizione degli effetti psicologici: gli astronauti sono euforici, litigano per i turni di uscita nello spazio, dove possono lasciarsi cullare dalla pace e dalla tranquillità delle stelle. Pare che quando la passeggiata nello spazio sia diventata realtà, gli astronauti si siano sentiti davvero euforici.
E’ incredibile la capacità di preveggenza di quest’uomo! Probabilmente, anzi, sicuramente, era dotato di una grande capacità immaginativa e di una sensibilità straordinaria. Insisto su questo punto quasi alla nausea, perché sono veramente colpita dalla sua capacità immaginativa e di “preveggenza”. E’ vero che la storia della letteratura e della scienza è piena di geni preveggenti; basti pensare a Giulio Verne o a Leonardo da Vinci, ma Asimov, secondo me, riesce a scoprire la parte meno ovvia del futuro. Prima o poi l’uomo sarebbe andato nello spazio, avrebbe inventato macchinari per volare o scoperto nuovi mondi, ma come si sarebbe sentito? Cosa avrebbe provato? E’ la parte più profonda e poetica del futuro possibile che Asimov ha indagato.
Infine, i racconti che mi hanno fatto più riflettere sono “La macchina che vinse la guerra” e “Una questione di memoria”. Nel primo il super-cervellone Multivac, computer di ultimissima generazione, ha fatto vincere la guerra dei mondi ai terrestri, grazie ai suoi complicatissimi calcoli che hanno creato una strategia di guerra vincente. Poi scopriamo, alla fine, che il tutto si è risolto in un testa o croce.
Nel secondo, un uomo mediocre si sottopone alla sperimentazione di un antiinibitore di memoria che gli permette di ricordare ogni dettaglio della sua vita. In breve tempo fa carriera, ricattando i suoi superiori sul lavoro. Morale della favola: memoria non vuole dire intelligenza, e un uomo mediocre rimarrà sempre tale, anche se dotato di una memoria illimitata. Geniale, sia il primo che il secondo racconto. Nel primo Asimov prende in giro un po’ gli scienziati che fanno conto solo sulla tecnologia, quando, invece, basterebbe solo un po’ di buonsenso o di fortuna! Anche noi siamo portati a credere che il computer non può sbagliare e abbiamo un comportamento quasi di reverenza nei confronti della tecnologia. Ma, ahimè, c’è pur sempre un essere umano dietro i cervelloni…!
Nel secondo, invece, è interessante vedere come una sorprendente capacità può essere male utilizzata da chi non è una persona intelligente o, comunque, di buon senso. A rovescio: una persona mediocre non si riscatterà mai dalla sua mediocrità, anche avendo a disposizione grandi potenziali, perché, inevitabilmente, questi potenziali saranno male indirizzati.
Per concludere: tutti i racconti della antologia sono ben scritti e interessanti, perché ognuno affronta un argomento diverso e offre molti spunti di riflessione.

sabato 7 giugno 2008

il 6 nazioni

Il 6 nazioni si avvicina a grandi passi (anche se mancano più di 7 mesi !)... e io sono già alla caccia dei biglietti!! I fan di Bruce ne sanno qualcosa...
Non vedo l'ora di essere sulle tribune del Flaminio a tifare la nostra grande nazionale di rugby! Sicuramente sarà uno spettacolo meraviglioso, grazie al clima di festa che solo i tifosi di questo nobile sport sanno mettere in campo. E speriamo che Mauro non si faccia squalificare!!! Non vedo l'ora di vederlo giocare con la fierezza e la grinta che lo contraddistingue.
Nel frattempo, speriamo si facciano valere nelle partite dei test match a luglio in Sudafrica e a novembre a Torino e Padova, dove, tralatro, spero di essere presente!
Quindi, forza ragazzi, fate vedere che siete una grande squadra con un grande cuore e tanta tanta voglia di vincere!